Alle Fonderie Limone di Moncalieri (TO) va in scena il nuovo lavoro di Valerio Binasco, la sua prima direzione de l’Amleto dopo avervi preso parte come intereprete nella messa in scena fatta dal suo maestro Carlo Cecchi. Approcciarsi a mettere in scena Amleto, oggi, nel nostro mondo attuale, consente di affrontare sfide, di specchiarcisi dentro, di cercare nuove vie, ma espone al rischio di sentirsi frustrati, persi, ingoiati da tutto quel silenzio, quel buio, quell’abisso. Binasco prende una strada limpida e dirimente, tagliente e labile, spaziosa. Una scena vuota, un incipit armato da cui capiamo l’intenzione di seguire il testo nella sua versione classica, quasi integrale, per tre ore di spettacolo; lo spettro non c’è, è solo luce che erompe dal buio, come une ferita che vuole irradiare senza parole, il disagio contagioso di un luogo teatro degli orrori. Elsinor è fatto di sipari che si aprono, si muovono, separé che vengono calati dall’alto, si sollevano, scene che si allargano e dialoghi che si stringono negli stipiti del proscenio o allagano la platea e aprono le porte di sicurezza, perché tutto parli, nulla sia lasciato al vuoto di parole silenti; che gli attori con il loro carro entrino in scena e costruiscano sotto i nostri occhi le assi del palcoscenico, che i servi di scena portino, spostino, allestiscano sotto i nostri occhi, che l’evocazione vinca su tutto per lasciare il crudo tramestio del cuore battere fino a rompere i canoni classici della rappresentazione, che gli attori possano servirsi del tempo come una pista da fiutare per solcare le ondate di sensazioni da lanciare agli spettatori seduti qui, testimoni inermi, scossi e sbattuti dalle trame del potere cui tutto deve piegarsi, nel disegno audace della morte seducente. E’ un Amleto essenziale senza fronzoli, fatto di segni estetici scenici di pura allegoria, metonimie scenografiche per una Elsinor sineddotica. Una sedia, una scarpa, una spada e tutto il mondo della follia erompe, sugli occhi sgranati di un Gabriele Portoghese che asseconda l’eco dei passi del padre ucciso, che usa il sudore del suo sentire per andare incontro al battito della verità, che ci incontra in platea, calciando la porta mangiafuoco o lasciando cascare il suo corpo come un sacco d’ossa da cui le parole vengono spremute e bevute dal pubblico. La libertà di questo giovane attore ci avvince, l’orchestra degli attori che ruotano intorno a lui segue accordi sonori che per osmosi toccano le corde emotive più profonde: un’Ofelia limpida e sfilacciata che getta nel fiume lo stereotipo convenzionale, restituendo un ruolo compresso ma più onesto, una madre dura dalla voce ferrea, costretta a piegarsi agli assalti del figlio, un Claudio sfumato in un nero che tende al grigio e gioca le carte di una varietà vibrante, di un cattivo che in realtà nasconde il cuore in un fazzoletto di spine. E in questo assetto non ci stupisce che il personaggio più comico risulti proprio Polonio che nella sua svelata finzione ipocrita non si rende conto dell’immagine indegna che dà del potere. Uno spettacolo che cammina sul filo sospeso del cuore aperto, dello stare accadendo in un tempo indefinito, in una coralità di sensibilità che evolvono il dramma nel suo complesso di spire e ci lascia per tre ore con il corpo gonfio di umanità.
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Visto il 5 maggio 2019
AMLETO
di William Shakespeare
traduzione di Cesare Garboli
consulenza drammaturgica Fausto Paravidino
con (in ordine alfabetico) Fausto Cabra, Vittorio Camarota, Fabrizio Contri, Michele Di Mauro, Christian di Filippo, Mariangela Granelli, Giulia Mazzarino, Nicola Pannelli, Mario Pirrello, Gabriele Portoghese, Franco Ravera, Michele Schiano Di Cola
e con gli allievi della Scuola del Teatro Stabile di Torino Pietro Maccabei, Lucia Raffaella Mariani, Cristina Parku, Davide Pascarella
regia Valerio Binasco
scene e luci Nicolas Bovey
costumi Michela Pagano
suono Claudio Tortorici
assistente alla regia Simone Luglio
produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale