“Life’s but a walking shadow, a poor player That struts and frets his hour upon the stage, And then is heard no more. It is a tale Told by an idiot, full of sound and fury, Signifying nothing”.
William Shakespeare
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Lo scrosciare di applausi – la cui eco ha inondato il Teatro Argentina di Roma – porta a compimento l’opera di Alessandro Serra, un regista la cui profondità espressiva si rivela dalla scelta delle ombre; degli elementi evocativi; degli strumenti scenici; e dalla performatività con la quale entriamo in contatto non solo con le possibilità espressive dei diversi attori ma anche con l’esaltazione di un Teatro la cui struttura si piega, si apre, si rivela al battere della parola, dell’idea, della visione.
Gli interpreti – Fulvio Accogli, Andrea Bartolomeo, Leonardo Capuano, Andrea Carroni, Maurizio Giordo, Stefano Mereu, Felice Montervino e Giovanni Carroni – entrano nel teatro elisabettiano rappresentandone come da tradizione le spoglie maschili e femminili, e vanno oltre, sporcandosi e riempendosi di quello che è la dionisia del Carnevale Barbaricino, una festa della terra sarda nella quale ognuno si trasforma in un altro, e ancora in altro ancora, sfidando la morale, le imposizioni pretorie, e il buon costume. L’intelligenza registica è qui condotta dall’esperienza che incontra diversi canali formali e li riconosce come specchio di una stessa profondità, di una stessa verità che ora attraverso una maschera ora attraverso della farina su un palco ci va rivelando l’effimero, l’evocazione primigenia, lo sguardo penetrante tutte le cose. L’integrazione tra il folklore sardo e l’esperienza del teatro seicentesco dà nuovo colore ad una tragedia che nei secoli ha collezionato migliaia e più rappresentazioni formalmente di poco dissimili l’una con l’altra. Il campanaccio di un carnevale popolare, il battere dei piedi sulla terra nuda, i muscoli tesi in un combattimento possono rappresentare esaurientemente la follia presente nella fame di potere, nel sangue che beve sangue, nel porcile dell’assalto descrittoci dalla sensibile penna di William Shakespeare, e così gli elementi presenti in scena (il pane carasau, i sassi, la piccola sedia) che divengono frecce tese il cui centro è un ritmo che si espande in un vibrato gestuale, in una bestialità animale che ci richiama a sé conducendoci nella tragedia.
Macbettu ci parla della storia di un uomo le cui scelte, le cui debolezze lo fanno sprofondare, atto dopo atto, nella più nera delle notti; non c’è pace qui per chi ha avuto in macchia l’anima in cambio di assassinii, manipolazioni, codardia. La coscienza parla, confonde, tortura colui che da essa si è allontanato. E attraverso la presenza di streghe malevole, dissacranti, orripilanti giungiamo in un ancestrale territorio dove il dentro si confonde con il fuori, e il sogno con la realtà. Odori, suoni, immagini si susseguono e vanno a toccare l’esperienza dello spettatore riportandolo alla carne, illuminandolo nell’archè, onorandolo della pienezza di una rappresentazione che sovverte schemi e inonda di splendori la rappresentazione scenica.
Un unico appunto che sento di scrivere al cospetto di quest’altezza scenografica, registica, musicale è questo: a volte non basta il sublime per rappresentare un’emozione, e a volte è proprio la nudità ad esaltare ciò che è e resterà, al di là delle generazioni e dei cambiamenti delle stagioni; perché dico questo? Vi è nel centro della scrittura shakesperiana un senso che trascende spazio, cultura, e tempo; vi è nel suo scrivere una saggezza esistenziale, una ferocità reale che non ha bisogno di forma per trapassare la prova del tempo, e avendola non se ne compiace. In questo Macbettu manca il vibrato emozionale, la potenza di un femminile feroce e sottile, il disturbo profondo che tocca la ragione e la spoglia di se stessa, e di ogni ragione di cui essa va nutrendosi. Manca la pazzia, quella più vera, quella più focale e centrale nel cuore dell’uomo, quella pazzia a cui il suo stesso artefice finirà per soccombere. Il virtuosismo non deve celare ma esaltare lo strappo, la fioritura dell’inganno, il passaggio; si sente in questo spettacolo una visione dall’alt[r]o, integrata, profonda a suo modo ma non propriamente rivolta all’interno, e alla ferita che nasce nelle interiora di un uomo straziato.
In ogni caso, e senza ombra dubbio, un’altissima prova di maestria, da vedere e vivere almeno una volta.
Credits
Macbettu
di Alessandro Serra
tratto dal Macbeth di William Shakespeare
con Fulvio Accogli, Andrea Bartolomeo, Leonardo Capuano, Andrea Carroni, Giovanni Carroni, Maurizio Giordo, Stefano Mereu, Felice Montervino
traduzione in sardo e consulenza linguistica Giovanni Carroni
collaborazione ai movimenti di scena Chiara Michelini
musiche pietre sonore Pinuccio Sciola
composizioni pietre sonore Marcellino Garau
regia, scene, luci, costumi Alessandro Serra
produzione Sardegna Teatro e compagnia Teatropersona
con il sostegno di Fondazione Pinuccio Sciola, Cedac Circuito Regionale Sardegna
lingua sardo con sovratitoli in italiano
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Premi:
Premio Ubu 2017 come Spettacolo dell’Anno
Premio della Critica Teatrale conferito dall’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro
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Festival MESS Awards (Sarajevo):
– Best Director – Alessandro Serra
– The Golden Mask Award by Oslobodenje – Macbettu
– The Luka Pavlovic Award by theatre critics – Macbettu