Autore: Omar Giorgio Makhloufi; rielaborazione drammaturgica di Leonce e Lena di Georg Büchner
Attori: Diana Dardi, Veronica Dariol, Omar Giorgio Makhloufi, Davide Rossi, Tommaso Sculin
Regia: Omar Giorgio Makhloufi
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Agitatore politico e uomo di scienza oltre che scrittore precursore dell’avanguardia novecentesca (soprattutto espressionista), Georg Büchner nato in Assia, uno degli stati più reazionari della Germania di primo Ottocento, e scomparso a soli 24 anni nel 1837, ha elaborato un pensiero rivoluzionario, in ambito sia sociale che letterario, in anticipo sui tempi e di scottante attualità. Nell’Europa segnata dalle guerre napoleoniche e dalla Restaurazione del Congresso di Vienna, Büchner sosteneva che, per perseguire il riscatto del “quarto stato”, piuttosto che istruire la massa dei diseredati ad opera di un’elite illuminata, fosse prioritariamente necessario rimuovere le differenze di classe tra il blocco aristocrazia-borghesia (anche quella riformista-“rivoluzionaria”) e quello del proletariato e dei contadini. Solo partendo da questo presupposto, ispirato ad un autentico socialismo, anche la letteratura avrebbe potuto sperare di influire sul mutamento delle mentalità e delle credenze radicate nel popolo. L’esigua ma folgorante produzione drammatica di Büchner (La morte di Danton del 1835, Leonce e Lena del 1836, Woyzeck, del 1836-37) è attraversata, da un lato, dalla tensione utopica che si volge in nichilismo apocalittico nel momento in cui l’autore sperimenta nella propria vita e nel proprio animo d’artista il tragico fallimento della prospettiva rivoluzionaria; e dall’altro, dallo spirito oggettivo nell’osservazione dell’umanità e dei fenomeni sociali derivante dalla sua formazione scientifica (Büchner aveva studiato medicina per specializzarsi poi in scienze naturali ottenendo la libera docenza all’Università di Zurigo).
Verve polemica e satirica, disincanto e materialismo anti-idealista, trovano un punto di riuscito equilibrio in Leonce e Lena, con la permanenza, seppur sottotraccia, di suggestioni romantiche (del cui ingente lascito, soprattutto goethiano, il giovane autore tedesco è inevitabilmente partecipe) e il vitale innesto di una giocosa e fiabesca leggerezza al servizio della smitizzazione e dell’emersione di un destabilizzante senso di smarrimento e precarietà esistenziale. La pièce è quindi al tempo stesso una commedia romantica e una parodia di quello stesso genere (ormai codificato in autori come Alfred De Musset e Clemens Brentano da cui il nostro è maggiormente influenzato). L’ozio e la noia che contraddistinguono l’esistenza degli aristocratici protagonisti della pièce sono vizi da cortigiani, ma anche espressione di un epicureismo venato di disillusione che diventa stile, se non scelta, di vita; il giovane malinconico principe Leonce scopre l’amore grazie alla principessa Lena, ma il lieto fine dei festeggiamenti nuziali è demistificato dall’intervento del servo Valerio che attribuisce sia ai nobili, da lui stesso cooptati in una mascherata, sia al popolo, costretto dal Consigliere di Corte a fingere letizia pur in stato di miseria e abbrutimento, una generale tragicomica identità di marionette eterodirette.
La riscrittura drammaturgica di Omar Giorgio Makhloufi recupera proprio l’esito ultimo della lezione büchneriana di un’assimilazione “assurda” di dominanti e dominati, rilanciando nell’odierna dimensione socio-politica europea la dialettica vissuta e descritta sulla pagina dal drammaturgo tra predomino delle forze reazionarie e conati rivoluzionari. La ricontestualizzazione è operata dapprima a livello tematico, con intuizione spietata e profetica, immaginando un universo distopico in cui la classe dirigente si autorappresenta nello scenario mediatico vincente dei nostri giorni, quello del web: la vicenda dei protagonisti del regno di Scheiße e del regno di Pissede (eredi dei büchneriani regni di Popo e di Pipi) si trasferisce all’interno di un reality show, con l’immancabile ausilio del “confessionale” dotato di microfono e videocamera, in cui i nobili offrono di sé un’immagine degradata ma che funge paradossalmente da modello per gli spettatori della rete che sono chiamati a partecipare a questo nuovo rito di massa interagendo in diretta live con post, commenti ecc. Ed è proprio a questo livello più propriamente performativo, che la riscrittura di Artifragili ha attualizzato il latente anelito rivoluzionario della drammaturgia büchneriana: al pubblico presente in sala viene infatti attribuito il ruolo di quello della rete invitandolo ad esempio a leggere da uno schermo sul fondoscena delle battute rivolte da alcuni personaggi come i Consiglieri di Stato, i camerieri ecc. al Re Pietro o al Principe Leonce, inducendolo così a sperimentare un’ambigua complicità con la loro condizione di vuoto esistenziale ormai spogliato di qualsiasi implicazione filosofica (in Büchner l’idealismo hegeliano faceva ancora a pugni col materialismo) e irrimediabilmente scaduto a spettacolo trash. Nell’intento della riscrittura di scena di Artifragili, tale attivazione del pubblico, agendo nel cuore vivo del rapporto attore-spettatore, dovrebbe condurre ad un risveglio dal sonno e dall’oblio della coscienza in cui versano metaforicamente le masse europee dei nostri giorni (da qui il titolo Dormi Europa, dormi…) e che sembrano aver partorito i mostri che si agitano sul palcoscenico mediatico, teatrale e, ahimè, reale. Certo, anche e soprattutto gli attori di Artifragili hanno dato un decisivo contributo in direzione dell’auspicato rivolgimento dalla condizione di passività a quella di rinascita sia dell’anima che dell’intelligenza critica, dando dei lati sgradevoli dei vari personaggi, una rigorosa rappresentazione tanto eccessiva e a tratti esasperata quanto straniata in chiave sia comico-grottesca che drammatica. Il giovane principe Leonce di Davide Rossi, afflitto da un taedium vitae incline alla dissolutezza, ha così inaspettatamente palesato momenti di lucida autocoscienza e barlumi di ritrovata umanità nell’amore per Lena e nell’amicizia per Valerio. Il re Pietro, schizofrenicamente diviso tra infantilismo e autoritarismo, e tarpato da un’inguaribile inettitudine, è stato interpretato da Tommaso Sculin in un’ibrida chiave di farsa agghiacciante. La Rosetta di Diana Dardi, ha sotteso ai trasporti sensuali per Leonce quelli amorosi, così come la sua Assistente africana (la Governante nel testo di Büchner), bacchettona e bigotta, ha comunque manifestato comprensione e partecipazione ai patimenti di Lena. Omar Giorgio Makhloufi ha saputo rendere simpatico e trascinante lo scanzonato e intraprendente Valerio preservando alcuni tratti originali del personaggio, rappresentante l’alter ego e contraltare popolare e utilitarista di Leonce, e contaminandoli con sprazzi di cultura giovanile e musicale dei nostri giorni, vista nei suoi aspetti rozzi, volgari o involontariamente demenziali ma tutto sommato ingenua e sprovveduta. Veronica Dariol ha tenuto il personaggio di Lena in un costante stato di alterazione e stravolgimento emotivo, per rendere la strenua lotta interiore tra la repressione e deprivazione d’identità operate dall’ambiente familiare-educativo e l’incoercibile volontà di reagire ritrovando fugaci momenti di autenticità, come nell’insorgere della travolgente passione amorosa tra lei e Leonce.
Nel complesso, l’ensemble guidato da Omar Giorgio Makhloufi, ha dato prova di grande affiatamento e compattezza. La pratica dell’improvvisazione di gruppo ha dato vita ad una recitazione fresca ed esuberante, ricca di trovate, giochi di scena che hanno ravvivato e reinventato le relazioni di coppia tra i personaggi (Lena e l’Assistente, Leonce e Valerio, Leonce stesso e il Precettore interpretato da Tommaso Sculin in rigide pose da parruccone settecentesco), rotture dell’illusione scenica con entrate ed uscite dal personaggio e repentini slittamenti dal comico al drammatico. Con naturalezza i giovani attori hanno saputo passare senza soluzione di continuità dal linguaggio classico-romantico del testo originale a quello più quotidiano e finanche gergale della contemporaneità. Mettendo a frutto in modo ottimale tale autonoma creatività attoriale, la regia di Omar Giorgio Makhloufi ha orchestrato i diversi livelli dell’interpretazione del testo büchneriano e della sua riattualizzazione, accentuando nel primo atto l’aspetto satirico della decadenza della civiltà occidentale e della sua pervasiva “società dello spettacolo”; evocando nel secondo atto, riambientato nella campagna italiana, atmosfere magico-bucoliche in stridente contrasto con fenomeni di distruzione dell’ambiente naturale e di mancata o parziale accoglienza degli “stranieri” (quest’ultimo aspetto sintetizzato nell’inedito personaggio del contadino Mario, irresistibile figura di sempliciotto timoroso e diffidente, interpretata da Tommaso Sculin col ricorso all’idioma e al linguaggio del corpo tipici della cultura popolare triestina); facendo precedere i festeggiamenti nuziali nel salone di corte nel terzo atto da una “rottura di gruppo” dell’illusione scenica in cui gli attori hanno chiamato in causa direttamente il pubblico con domande e riflessioni sul senso della “strana” performance in corso; per concludere, coerentemente, la breve mascherata finale con i due sposi in veste di suini, con l’invito rivolto agli astanti dal deus-ex machina Valerio-regista Omar Giorgio Makhloufi di chiudere gli occhi “mettendo in scena” il titolo dello spettacolo, dormendo cioè come bimbi ignari dei rovinosi destini dell’Europa, su cui invece, paradossalmente, Artifragili vuol richiamare urgentemente l’attenzione sia del pubblico del Polo Giovani Toti che di quello collegato in diretta streaming da casa, attraverso il servizio di videoripresa curato dalla “Joters Web Agency” di Trieste.