Giovedì 23 marzo 1944 alle 15.45 in via Rasella, ai piedi del Quirinale, scoppia una bomba che ucciderà 33 uomini. Venerdì 24 marzo 1944 alle 15.30 alle Cave Ardeatine inizia l’eccidio di 335 uomini. I primi morti sono soldati del reggimento Bozen, formazione altoatesina appartenente all’esercito nazista. I secondi sono civili e militari, parecchi ebrei, detenuti e prigionieri politici. Soltanto 3 di loro avevano ricevuto una condanna.
Quello che è noto come l’eccidio, il massacro, o per i più approssimativi l’episodio delle Fosse Ardeatine è una storia lunga da raccontare. Ascanio Celestini la racconta da vent’anni nei teatri, cercando di evitare gli errori più comuni quando si parla di Storia: l’estrema sintesi e l’imprecisione. Spesso per pigrizia non si dà il dovuto peso alle fonti, per leggerezza si usano termini inappropriati, per non sbagliare ci si limita alle date corredate da una breve didascalia. Invece la Storia, soprattutto quella recente, va approfondita, sviscerata, interpretata. Radio Clandestina descrive lo svolgimento dei fatti, le premesse, le conseguenze, le reazioni. Smonta i falsi miti, sottolinea le contraddizioni, si sofferma sulle parole. Le parole con cui definiamo gli eventi sono fondamentali, possono cambiare il punto di vista che abbiamo sulla Storia. Dunque la Storia stessa. Chiamare l’azione gappista in via Rasella attentato. Qualificarne gli attori come comunisti-badogliani. Concludere il comunicato della rappresaglia con le parole “L’ordine è già stato eseguito” – che sono quelle usate da Alessandro Portelli per il titolo del suo libro che dà voce ai testimoni e che ha ispirato Celestini. Lo stesso significato del termine rappresaglia. Chiamare le cose col proprio nome non è mai piaciuto ai nazifascisti, come a nessun regime. E quando si ha il pieno controllo sui mezzi di comunicazione è facile falsare i fatti, lasciarne una traccia ingannevole. Si volle far passare l’eccidio delle Fosse Ardeatine, che vide 335 martiri, per un’operazione volta a ristabilire la legalità. Ma laddove il significato di legalità viene tradito, la ribellione e la clandestinità assumono un valore diverso, talora necessario.
La cadenza melodica di Celestini, il suo continuum romanesco di cantastorie di strada, sono perfetti per avvicinarsi alla vicenda storica senza il fare cattedratico di un professore né la presunzione saccente del moralista. Racconta le cose per come sono andate, non senza incisi di ironia, certo, mai invadenti né strumentali, però. Il suo ripetere sintagmi riempie gli spazi, i silenzi, in bilico tra un colloquiale scambio di battute sul portone di casa e la formularità dei poemi classici. Un fiume di parole travolge lo spettatore, o piuttosto lo coinvolge in una storia che non ha vissuto ma sente sua, e non può che essere così. È sua perché l’attore romano gliene fa dono ed è sua perché è una pagina della storia italiana, una delle più crude. Anche la più grande strage di Ebrei in Italia. Una pagina da rileggere, sfogliando all’indietro ogni volta se ne perda un dettaglio.
La storia evocata, il suo prosatore, la cornice del Teatro Romano di Fiesole avrebbero reso eccessiva qualunque scenografia. Soltanto piccole fonti di luce: qualche lampadina e una manciata di candeline, per illuminare di volta in volta un personaggio, un gesto, un particolare, per fare luce su un anfratto buio. Per lasciare accesa la memoria.