Si entra nel vivo della programmazione trasversale sabato 20 luglio in quel di Sansepolcro (AR). L’intera seconda giornata prima degli spettacoli del tardo pomeriggio che proseguono fino a sera inoltrata è infatti stata dedicata all’incontro pubblico Il linguaggio che siamo diventati che ha avuto luogo presso la Bilbioteca Comunale, dove si sono radunati studiosi e critici appartenenti al mondo accademico, teatrale e culturale italiano giunti appositamente al Kilowatt Festival per parlare di importanti temi “attuali e scottanti”, come affermano gli stessi direttori della manifestazione. L’incontro pubblico nasce dalla sostituzione della giornata dedicata a Romeo Castellucci (che sarebbe dovuto essere il “padrino” del festival) e dalla “miccia” social che ha scatenato la sua rinuncia a partecipare al Kilowatt quest’anno. In un presente così “inflazionato” dai continui e roboanti messaggi, likes e notifiche provenienti dagli innumerevoli social network che teniamo sempre d’occhio dal nostro smartphone ovunque ci troviamo e qualsiasi cosa stiamo facendo, quanto è importante riflettere sul linguaggio come motore scatenante di eventi che da un singolo post sfuggono al nostro controllo generando il caos ad ogni commento che si aggiunge in tempo reale? Evidentemente moltissimo, e l’incontro pubblico che ha avuto luogo a Kilowatt ne è la prova, data la grande partecipazione degli intervenuti sia fisicamente al festival che virtualmente coinvolti attraverso la diretta streaming dell’evento. Un momento di pedagogia collettiva, questa l’intenzione dichiarata dagli organizzatori dell’incontro pubblico. Tre le fasi della giornata, dedicate ciascuna a macro-temi collegati tra essi dal linguaggio, fulcro di tutta la riflessione. Le modalità del dialogo pubblico in rete, le fragili condizioni di lavoro nell’intermittenza della produzione culturale e artistica e l’esigenza di rinnovare l’immaginario legato alle questioni di genere. Sul “ring” dei relatori si sono susseguiti importanti esponenti come Laura Gemini (Università di Urbino), Vera Gheno (Accademia della Crusca), Bruno Mastroianni (Rai), Antonio Pavolini (analista dell’industria dei media), Graziella Priulla (Università di Catania) ed Elisa Virgili (ricercatrice indipendente).
Alla fine dell’incontro pubblico subito dritti al primo spettacolo in programmazione, 9 lune di Bartolini/Baronio. Nata appositamente per il Kilowatt, la nuova creazione del duo celebra i 50 anni dall’allunaggio con nove repliche in nove abitazioni diverse di Sansepolcro, portando quindici spettatori per volta all’interno di una storia che mescola universale e particolare insieme. Frutto del periodo di residenza creativa sul territorio, la performance si sviluppa con e per gli spettatori che vi assistono, in un unicum che sposa teatro e convivialità. Le famosissime immagini di repertorio dell’allunaggio in diretta Rai accolgono gli spettatori in casa di Filippo e Norma, due sposi di mezza età che rivivono i loro ricordi attraverso le domande dei due perfomer in una conversazione registrata intervallata dalle parole di Tamara Bartolini, che conduce il gruppo a ritroso in un passato che mira al coinvolgimento emotivo ma anche a qualcosa di più profondo: trovare un senso di comunità nel qui e ora. Il processo scenico passa attraverso i sensi, sorseggiando la freschissima limonata del padrone di casa, ascoltando Segnali di vita di Franco Battiato cantata e suonata unplugged da Michele Baronio mentre attraverso un palloncino bianco che favolisticamente si trasforma in una luna piena filtrano immagini di famiglia della coppia. 9 lune è un esperimento di teatro partecipativo attraverso i sensi e arriva a toccare corde profonde con la sensibilità e la delicatezza della meravigliosamente affiatata coppia Bartolini/Baronio, aggiungendo un piccolo tassello alla loro personalissima ricerca sulla casa e l’abitare. La luna è solo un pretesto, forse: ricordando uno dei pochi eventi che tenne incollati con il naso all’insù le persone di tutto il mondo ci si ritrova a pensare a come poter replicare un così forte senso di appartenenza comunitaria nel nostro presente in cui l’odio per lo straniero e più in generale per il prossimo sembra far da padrone.
A seguire un appuntamento imperdibile, la prima nazionale del nuovo spettacolo del collettivo fiorentino Sotterraneo. Shakespearology, un monologo sul più grande drammaturgo di tutti i tempi. Woody Neri è il tenebroso e malinconico bardo, elegante nell’impeccabile mise nera in cui viene intervistato dalle voci registrate dei componenti della compagnia, come una sorta di dialogo impossibile e serrato alla Mai dire…, il famoso programma televisivo degli anni ’90. Del resto da Sotterraneo ci si può aspettare di tutto, anche uno spettacolo in controtendenza con i canoni in cui viene da sempre (e per sempre sarà) interpretato William Shakespeare. Oltre la maschera l’uomo e oltre il personaggio un barbuto e stempiato performer dissacrante tanto con sé stesso e i suoi contemporanei che con la nostra, di contemporaneità. Caratteristica intelligentemente pungente della drammaturgia è infatti il capovolgimento dell’intervista al bardo, sbalordito dalle risposte dei suoi stessi interlocutori che dipingono l’attuale scenario teatrale italiano come poco (se non per nulla) remunerativo e invischiato in leggi e riforme che si mordono la coda. Shakespearology è il cilindro di un mago (un istrionico Woody Neri, sempre in parte per un’ora e un quarto di spettacolo) dal quale non esce semplicemente un coniglio, ma una sfilza di aneddoti e curiosità sdoganate, sviscerate, masticate attraverso doppiaggi cinematografici e canzoni interamente interpretate chitarra e voce dal performer, fino alla messa in scena del ruolo più paradossalmente difficile da interpretare per il più grande tragediografo di sempre, la propria morte. Uno spettacolo irriverente e dal ritmo incalzante, una semitragedia che restituisce un ritratto quasi inedito di Shakespeare, coniugandone con equilibrio dimensione professionale e umana, un one-man-show che tutti gli studenti di liceo (e non solo) dovrebbero vedere.
La seconda e torrida giornata del festival si chiude nel segno della luna, stavolta con la prima nazionale al Chiostro Santa Chiara dello spettacolo Fly me to the moon, della compagnia Arditodesìo. In other words, cantava nel 1954 Kaye Ballard nel brano divenuto famoso come Fly me to the moon, in italiano “fammi volare fino alla luna”, consacrato al successo mondiale dalla calda voce di Frank Sinatra. Dietro i grandi eventi storici, le grandi scoperte c’è sempre una vicenda soggiacente che resta sullo sfondo, delineando i contorni dell’iceberg di cui la maggior parte delle volte si conosce solo la punta. Lo spettacolo dipinge la vita familiare di Adam e Valentina: ambizioso astronauta lui, fedele moglie e madre lei. Nella coppia presto o tardi si insinua un terzo incomodo, un elemento destabilizzante anche se infinitamente affascinante: la luna. Così ingiustamente impossibile da raggiungere per lui che è ad un passo dall’arrivarci da decretare la sua fine. Alla luna è dedicata la rigida lezione anche troppo didattica della questione scientifica attorno all’unico satellite naturale della Terra e degli aspetti più specialistici inerenti le Missioni Apollo. Lo spettacolo rappresenta il nuovo capitolo del progetto Jet Propulsion Theatre creato da Arditodesìo per esplorare l’innegabile connessione tra essere umano e scienza. Andrea Brunello, direttore artistico della compagnia ed ex scienziato, firma una drammaturgia sicuramente interessante per tematiche e intenti, ma fin troppo sbilanciata sul versante scientifico e asettica nella messa in scena, che non riesce a coinvolgere e a superare la famosa quarta parete nella regia molto statica di Fabrizio Visconti.