La 62esima edizione del Festival di Spoleto si apre all’insegna del successo con la prima assoluta di Proserpine, opera contemporanea di Silvia Colasanti, tutta al femminile, in scena Teatro Nuovo Menotti (il 28 e in replica il 30 giugno).
Un successo che consolida il rapporto sempre più stretto fra la compositrice e il Festival si consolida e diventa maturo: dopo il Requiem, e il Minotauro (da Dürrenmatt) dello scorso anno, Proserpine, è la seconda tappa della trilogia dedicata alla mitologia riletta in chiave contemporanea e che si concluderà il prossimo anno (argomento ancora top secret).
Tratto dal poco noto omonimo dramma in versi in versi di Mary Shelley (l’autrice del più popolare Frankenstein tanto per intendersi) su testo e libretto adattato da René de Ceccatty e Giorgio Ferrara (direttore del Festival al dodicesimo anno in carica) e premiata coppia anche del Minotauro, Proserpine è una storia tutta al femminile, un mito che mette a confronto una madre e una figlia, che racconta il dolore della loro separazione, ma che segna anche un momento di crescita nella ridefinizione del rapporto madre-figlia che diventa più maturo.
Il mito racconta del rapporto fra Proserpine, rapita dal Plutone, re degli inferi, e la madre Cerere: al momento del lutto per il rapimento di Proserpine costretta a vivere nell’Ade, segue il ricongiungimento, almeno parziale per sei mesi l’anno, della figlia con la madre, quando Proserpine potrà trascorrere sei mesi dell’anno sulla Terra.
Un mito che viene raccontato quasi solo ed esclusivamente da voci, bellissime, femminili, di cui viene esaltata costantemente ciascuna vocalità: primeggiano il soprano Disella Larusdottir (Proserpine), ricchissima di coloriture che mostrano la sua evoluzione, e il mezzosoprano Sharon Carty (Ceres), dal canto potente e avvolgente, che si sono inseguite a suon linee melodiche raffinate e suoni cesellati.
Intorno a loro le ottime Anna Patalong (Ino), Silvia Regazzo (Eunoe), le due ninfe, Gaia Petrone (Iris), Katarzyna Otczyk (Arethusa) e Lorenzo Grante (Ascalaphus), l’unico uomo in scena in qualche modo isolato rispetto alla sensibilità e alla solidarietà tutta femminile messa in campo.
La partitura di Silvia Colasanti ricerca “il suono dell’addio”: è ricca di invenzioni, dettagli preziosi e sempre ricercata, interamente costruita sulla bellezza e la varietà delle voci e sulla suadente interpretazione delle voci femminili con l’intento di seguirne l’evoluzione dei moti d’animo.
La linea melodica continua è sempre dolcissima e delicata (un continuum in lingua inglese), ma permane costante un senso profondo di inquietudine e di minaccioso che anticipa il dramma (il rapimento) e il mondo degli Inferi che resta minaccioso in ogni dove dello svolgimento drammatico e che viene chiaramente anticipato dal Preludio strumentale di pretura, Omens. Molto attenta a seguire tutte le voci, la direzione di Pierre-André Valade sul podio dell’Orchestra Giovanile Italiana che ha valorizzato la bellissima partitura di Silvia Colasanti.
Alla regia di un’opera psicologica concentrata sulla ricchezza e sulle sfumature di sentimenti dove l’azione è ridotta al minimo, il direttore del festival Giorgio Ferrara che ha puntato su una scelta tradizionale, ma asciutta enfatizzando la ieraticità dei movimenti delle artiste per lo più ferme sulla scena.
Pochi i movimenti scenici, eccezion fatta per il rapimento di Proserpine assediata dalle Ombre seminude che la concupiscono fino a scortarla fuori dalla scena verso l’Ade, forse, per lasciar concentrare sulla ricchezza espressa delle voci.
Costumi in stile greco di Vincent Darré, fra pepli in tessuti iridescenti e corazze da guerriere, gambali e zeppe (un po’ inadatte) e con copricapi – capitelli ellenici: un maggiore, ma sottile gioco di luci avrebbe forse potuto ulteriormente valorizzare ed esaltare non solo tessuti dei costumi ma anche il contrasto emotivo così chiaro nella musica e nelle voci in una partitura che disegna una crescita umana e l’acquisizione della maturità. Scena statica con tre grandi fondali colorati, fra bandiere e pepli, pensati e creati dall’estro di Sandro Chia. Grande successo di pubblico per un’opera contemporanea di rara sensibilità e ricercatezza, perfetta anche in una versione semiscenica.