Billie Holiday è uno spettacolo che nasce da un moto di fascinazione, un incantesimo che in teatro si trasforma in un’ossessione ben precisa: dare forma ad una storia, dare corpo ad una presenza.
Tale è la spinta che deve aver mosso Ksenija Prohaska – autrice della pièce assieme al regista Arsen Ostojic – ad immaginare una messinscena ispirata ad una delle regine indiscusse del jazz.
E una volta in scena, nei panni di Billie, l’attrice croata incede alla ricerca di un’inquietudine irrisolta, capace di virare come la luce del giorno dal tono fragile a quello oscuro. E’ questo senza dubbio il principale ingrediente recitativo per la costruzione della parte: la compresenza di tratti contrastanti, una partitura di chiaroscuri e moti contraddittori, l’armonizzazione di equilibri imperfetti.
Regine, si diceva, perché il jazz era in origine un mondo marcatamente maschile -come del resto molti altri- fucina di mirabolanti pianisti, sassofonisti, trombettisti, ma quando si trattava di cantare era altrettanto connaturato alla voce femminile. E non solo di voce si tratta, c’è tutta la figura ed il complesso psichico della donna, piegando volentieri verso le colorazioni del blues.
Questo passaggio è fondamentale nel personaggio di Billie Holiday, il cui talento è tutt’uno con la consapevolezza acquisita tramite una vita da subito e per sempre tribolata. Pure, è da questo impasto di maledettismo perfetto che trae linfa quello stile geniale, quella capacità di rendere nuove le canzoni altrui ed inimitabili le proprie.
Pregio dello spettacolo – produzione internazionale di Florian Metateatro, in collaborazione con il Teatro Nazionale Croato di Spalato – è la scelta di un formato drammaturgico tipico dell’atto unico: l’azione è focalizzata su di un momento ben preciso, uno spaccato temporale breve ed unitario, collocato nell’imminenza di un evento decisivo che sta per accadere. Non ci sono salti ed il tempo della storia corrisponde con la durata materiale dello spettacolo.
Sul piano autorale ciò vuol dire non cedere ad una facile tentazione: raccontare linearmente l’appassionante biografia di Billie Holiday tramite l’azione scenica. Ciò non di meno emergono i nodi significativi legati al vissuto della cantante – l’abbandono da parte del padre, l’abuso sessuale, la tossicodipendenza, la questione razziale – che però affiorano dalle sole parole di Billie, pure bolle d’aria al pari delle note delle sue canzoni.
In questo modo, il palco – almeno per una notte – resta tutto per lei: Lady Day, al secolo Billie Holiday. Diviene un’icona che va oltre la musica, inconfondibile con la sua gardenia bianca tra i capelli severamente raccolti, destinata come Frida Kahlo a farsi simbolo di resistenze strenue contro l’abbrutimento.
L’allestimento della scena segue questo impianto drammaturgico: non c’è bisogno di uno spazio versatile né allusivo. Siamo all’interno di un classico jazz club americano, dove si bevono alcolici al bancone o sui tavolini tondi che lambiscono l’immancabile pianoforte sotto una coltre densa di fumo azzurrino. E non può mancare nemmeno il fidato barista (Daniele Ciglia), paziente ascoltatore, il deuteragonista capace di attivare il dialogo davanti ad una confessione fiume che attendeva solo di tracimare e trascinare.
È il racconto di sé firmato da Billie Holiday, il suo passato aperto e richiuso più volte in ordine sparso, mentre il suo presente sono le canzoni da provare assieme al pianista (Fabio D’Onofrio).
Poi finalmente, il futuro che incombeva… Billie Holiday in concerto! Ancora una volta e ad onta di tutto.
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CREDITS:
“Billie Holiday”
di Ksenija Prohaska e Arsen Ostojic
produzione Florian Metateatroin collaborazione con Teatro Nazionale Croato di Spalato
traduzione Sandro Damiani
con Ksenja Prohaska (Billie), Daniele Ciglia (Charlie), Fabio D’Onofrio (Bobby)
regia Arsen Ostojic
cura Giulia Basel
disegno luci Andrea Micaroni