Due artisti per due eventi che travalicano i confini del teatro musicale al Teatro dell’Opera di Roma che mette in scena un dittico contemporaneo Calder/Kentridge, Work in progress di Alexander Calder e Waiting for the Sibyl di William Kentridge.
Cinque repliche per uno spettacolo all’insegna della musica e dell’arte che unisce alla creazione di Calder, creata appositamente per il Costanzi nel 1968, la nuova commissione del teatro capitolino a Kentridge.
“Work in progress è un evento teatrale che non si può definire. Non è altro che la proiezione, sulla scena di un teatro, del mondo magico – poetico dominio della fantasia – entro cui muove e agisce l’arte di uno dei più grandi scultori del ventesimo secolo” aveva commentato il critico d’arte Giovanni Carandente che aveva coordinato nel 1968 le immagini teatrali presentate da Filippo Crivelli su musiche elettroniche di Niccolò Castiglioni, Aldo Clementi, Bruno Maderna.
Ma, a distanza di quasi 50 anni dall’esordio, appare compiuto e attualissimo, nonostante il nostro contesto sia ben diverso rispetto al clima del 1968.
Work in progress sono 19 minuti di semplice magia che riescono ad affascinare con la poesia delle immagini, la bellezza dei colori, la fragilità evocativa degli oggetti.
L’una dopo l’altra si consumano con delicatezza sei diverse alzate di sipario che evocano senza una storia precisa tutta l’astrazione di elementi naturali dell’artista – scultore statunitense: Work in progress è un pastiche, un bellissimo pastiche fra grandi dischi colorati che evocano la luna piena, gli uccellini o i ciclisti con tute colorate che pedalano in larghi ovali, grandi mobiles movimentati dai macchinisti in tute blu, fra luci calde e movimenti lentissimi.
“Avrei potuto chiamarlo la mia vita in diciannove minuti” aveva detto Calder commentando il suo evento-spettacolo, proiezione della sua fantasia e della sua arte, anelito di libertà.
Work in progress è ancora semplicemente pura poesia quasi inenarrabile, sempre meravigliosa.
E il concetto di “lavoro in corso” è anche lo stesso fil rouge della serata con la prima assoluta della seconda opera della serata, Waiting for the Sibyl di William Kentridge, artista sudafricano che aveva esordito all’Opera con la straordinaria Lulu di Alban Berg.
La scommessa di Kentridge non è stata semplice raccogliendo l’eredità di Calder senza creare una copia pallida: l’artista sudafricano ha scelto di evocare la storia della Sibilla Cumana, la sacerdotessa che trascriveva i suoi vaticini sulle foglie di quercia mettendo in scena fogli di carta, frammenti volanti che rappresentano la cifra stilistica della sua arte (come i mobiles per Calder). Le otto sequenze immaginate da Kentridge restituiscono l’idea angosciosa dell’imprevedibilità del caso attraverso la disgregazione della carta e dei fogli volanti dei vaticini. Fra proiezioni e dipinti, la Sibilla si agita fra i ritmi incessanti della musica sudafricana composta e rielaborata da Kyle Shepherd e Nhlanhla Mahlangu con le ballerine in scena: il movimento è quasi esasperato e il vaticinio forse ben poco rassicurante. Se si desidera conoscere il proprio destino, in effetti sappiamo bene che il nostro destino è ineluttabile cercando però di aggrapparci al nostro futuro.
Ogni evento teatrale porta con sé la cifra stilistica ed emotiva inconfondibile dell’artista, fra la leggerezza di Calder e il vaticinio quasi angosciante di Kentridge, ma il dittico evento dell’Opera resta un evento che lascia riscoprire la grande arte che contamina il teatro.