Il Festival di Bayreuth consegna le chiavi del nuovo Tannhäuser a Tobias Kratzer e il giovane regista tedesco, assieme a Rainer Sellmaier (scene e costumi) e al Manuel Braun (video), non deludono le aspettative. Sulle note soffuse dell’Ouvertüre parte un road movie. Un pulmino Citroen anni settanta sfreccia fra i boschi della Turingia con a bordo uno strano equipaggio. Kratzer trasforma il Venusberg in una bizzarra compagnia di artisti di strada. Venus in versione Pussy Riot, una straordinaria Elena Zhidkova, guida spiritata con al fianco Tannhäuser, Stephen Gould vestito da clown. Dietro viaggiano altri due personaggi che sostituiscono le creature originali del regno della dea dell’amore.
Manni Laudenbach interpreta con grande mestiere Oskar, un nano tamburino che allude al protagonista del Tamburo di Latta di Günter Grass. Gli fa compagnia “Le Gateau Chocolat”, una drag queen di colore. La compagnia di giro se la spassa e scorrazza per le strade rubando cibo e benzina. Intanto lascia dietro di sé volantini con una frase del Wagner libertario pre-1849, quando il compositore frequentava Bakunin e non Ludovico Secondo di Baviera: “Frei im Wollen, frei im Thun, frei im Geniessen” (Liberi nei desideri, Liberi nelle azioni, Liberi nei piaceri). Un piccolo microcosmo itinerante in cui si fondono arte, vita e politica. Finché Venus non travolge un vigilante e lo uccide. A quel punto il pagliaccio Tannhäuser, decide che la misura è colma e si butta dal pulmino in corsa. Viene raccolto da una fanciulla in bicicletta (il pastorello nell’originale), interpretata con delicata freschezza da Katharina Konradi che lo abbandona … davanti alla Festspialhaus di Bayreuth, dove stanno sfilando gli spettatori in abito di gala. Tannhäuser incontra qui i colleghi cantori che lo riammettono nel club fra grandi risate e pacche sulle spalle. E proprio il tempio della musica wagneriana accoglie il secondo atto. Teatro nel teatro. Il palcoscenico è diviso in due. In basso la sala della Wartburg dove si sfidano i cantori (raffinato il dettaglio storico della ricostruzione). Sopra scorrono i filmati del backstage e della cricca del Venusberg che si intrufola nella Festspielhaus, non senza aver prima appeso uno striscione con il motto wagneriano al balcone del teatro. Il video dell’incursione nella Festspialhaus ricorda per efficacia grottesca certe immagini di Tarantino. Venus si unisce di nascosto al coro, Oskar e Le Gateau Chocolat irrompono nella sala. Scoppia una specie di Guerra dei Mondi fra il placido senso di misura dei cantori e l’anarchia freak dei tre invasori. Alla fine qualcuno chiama la polizia, che arriva e porta via Tannhäuser (altro che pellegrinaggio a Roma!).
Il terzo atto si svolge nel cortile desolato di uno sfasciacarrozze. Quasi luogo simbolico della fine delle illusioni di rigenerazione sociale e dei sogni amorosi. La ribellione ha finito per autodistruggersi e Oskar fa uso non ortodosso dei volantini. Elisabeth si sente tanto smarrita da concedersi pigramente a Wolfram nel pulmino, prima di morire. L’unico ad aver fatto carriera è Le Gateau Chocolat che campeggia come testimonial sui cartelloni pubblicitari. Arriva Tannhäuser, più ex galeotto che pellegrino affranto, e si vira verso il finale quando il nostro eroe, Oskar e Wolfram si commuovono sulla salma di Elisabeth.
Kratzer, che sceglie di rappresentare la prima versione dell’opera, sposta il conflitto fra lussuria e ascetismo alla dimensione sociale. La tensione è adesso più generale, è fra due modelli di vita, in cui l’amore e la sessualità sono solo una parte e forse neanche la più rilevante (gli stessi Venere e Tannhäuser nel primo atto non amoreggiano affatto e neanche potrebbero, vista la ristrettezza del furgone e l’affollato equipaggio). È il conflitto fra il mondo bohémien e libertario del Venusberg e quello formale e borghese della Wartburg. Un chiaro contrasto visivo marca la differenza fra questi due modelli di vita. Dinamico e colorato (strepitose alcune mise di Le Gateau Chocolat) quello degli artisti trasgressivi, quanto austero e statico quello dei cantori alla corte del Langravio.Nella sua sfrontatezza uno spettacolo efficace e visivamente spassoso, che diverte e che non si scorda facilmente. Bisogna anche dare atto al regista e al suo team della quantità e della precisione del lavoro tecnico che sostiene la messinscena. Spiritoso l’intermezzo fra il primo e il secondo atto in cui Manni Laudenbach e Le Gateau Chocolat scendono dalla collina e intrattengono il pubblico, molto divertito dalla novità, con uno spettacolo live nel parco. E in questo teatro che esce dal teatro, lo striscione appare davvero sul balcone della Festspielhaus. In questo florilegio di trovate registiche si lamenta anche qualche caduta di stile.
L’esuberanza di immagini e di video sottopone inoltre lo spettatore a un multitasking quasi costante e talvolta risulta difficile mantenere l’attenzione sulla musica e sulla recitazione. Ed è un peccato perché il cast è davvero eccellente, a partire dalla giovane Lise Davidsen che restituisce Elisabeth con voce amplissima e luminosa. Il soprano norvegese appare davvero destinata a un fulgido avvenire wagneriano. Accanto a lei Stephen Gould, un vero Heldentenor, restituisce senza fatica tutte le diverse sfumature di Tannhäuser, uno dei ruoli più impegnativi del teatro wagneriano, e si fa ammirare per la recitazione. Elena Zhidkova è una Venus anarchica dalla voce solidissima, sublimata da una performance battagliera e sensuale. Intenso e lirico il Wolfram di Markus Eiche, mentre Stephen Milling, già amimirato nel Ring di Castorf, si immedesima con voce profonda e gesto solenne nei panni del Langravio. Daniel Behle (Walther von der Vogelweide), Kay Stiefermann (Biterolf), Jorge Rodriguez-Norton (Heinrich der Schreiber) e Wilhelm Schwinghammer (Reinmar von Zweter) sono gli altri cantori della Wartburg. Magnifico il coro che muta ruolo e apparenza durante la serata, da devoti spettatori wagneriani in ghingheri a schiera di profughi. Applausi finali calorosi per tutti, incluso Valery Gergiev che invece dovette incassare diverse contestazioni alla prima di fine luglio.
La sera successiva si passa dal dinamismo di questo Tannhäuser al Parsifal pacato e raccolto di Uwe Eric Laufenberg, giunto alla sua rappresentazione finale, una riflessione sul nucleo religioso dell’ultima opera di Wagner. Una comunità cristiana sotto assedio svolge la sua missione di accoglienza e di preghiera in una chiesa già ferita dalla guerra. Chiari i riferimenti visivi al Medio Oriente nelle scene di Gisbert Jäkel, imponente il grande lavacro di marmo al centro della scena, e nei costumi di Jessica Karge. In questa comunità di monaci, impegnati da carità e riti sacrificali arcaici (si dissetano dal sangue delle ferite di Amfortas), piomba un Parsifal con un’espressione persa da Forrest Gump. Nel secondo atto lo ritroviamo armato di tutto punto nel regno di Klingsor, una via di mezzo fra un harem e un bagno turco piastrellato di azzurro.
Una folla di donne velate si trasforma in una comitiva di odalische, le Fanciulle Fiore. Un vagheggiamento esotico in mezzo alla desolazione. La recita finisce con i rappresentanti delle diverse fedi che seppelliscono i loro simboli nella tomba di Titurel e trovano finalmente pace. Un chiaro gesto contro il fanatismo e l’oppressione religiosa. Una frase del Dalai Lama riportata sulla prima pagina del programma di sala (“Certi giorni penso che sarebbe meglio se non ci fossero più le religioni”) rafforza il messaggio. È uno spettacolo bello e solenne, con le sue nobili architetture sacre, che nel terzo atto sono invase dalla vegetazione tropicale, in un paesaggio che rimanda ai templi asiatici o centroamericani coperti dalla giungla.
Ma sono le voci e la musica ad accendere l’entusiasmo del pubblico. Già dalle prime note del Vorspiel, si capisce che non sarà una serata qualunque e per tutta la recita Semyon Bychkov dirige con misurata solennità il viaggio cerimoniale del Parsifal, che spazia dalla fissità del mondo del Graal al cromatismo lussureggiante del regno di Klingsor.
Bychkov ha ai suoi comandi anche un cast di grande qualità. Si impone per espressività vocale la Kundry di Elena Pankratova, capace di dipingere tutte le sfumature dell’unico ruolo femminile dell’opera, dai colori più scuri del primo atto alle esplosioni nel registro più acuto. Rimarchevoli anche le capacità sceniche, il battesimo di Kundry anziana e penitente è una fusione perfetta di voce e gesto.
Andreas Schager traccia senza sforzo la parabola di Parsifal, dall’ingenuità dell’inizio al trionfo finale. Maestosto Il Gurnemanz di Günther Groissböck che attendiamo di ascoltare come Wotan nel Ring che debutterà nella prossima stagione. Efficace Derek Welton nei panni di un Klingsor perverso e dedito all’autoflagellazione, mentre e Ryan McKinny incarna con efficacia tutta la sofferenza di Amfortas. Impressionante la forza drammatica del coro, autentica colonna portante del Festival assieme all’orchestra.
Una serata in cui tutte le stelle si allineano per produrre un’esperienza musicale perfetta, salutata da una lunghissima ovazione finale.