Racconti Americani è una trilogia messa a punto dai Muta Imago a cavallo tra 2015 e 2018 partendo da tre titoli della narrativa statunitense, piuttosto lontani l’uno dall’altro per ragioni di vario ordine: Fare un fuoco di Jack London (1908), Bartleby lo scrivano di Herman Melville (1853) e Il Nuotatore di John Cheever (1964).
I tre racconti originano da tre momenti storici ben diversi della società statunitense, fotografata da altrettante prospettive geografiche e sociali: dalla spietata selvaggeria della gelida Alaska d’inizio Novecento alla calura sonnolenta di un cocktail party domenicale, indetto da borghesi rampanti e nouveau riches per celebrare a bordo piscina la fine di un’ennesima spensierata estate. Nel mezzo, un tuffo indietro nel passato, nel grigiore laborioso di una Wall Street di metà Ottocento, ancora abbondantemente ignara delle crepe che apriranno alla crisi del ‘29 (eppure, lo strano comportamento di un bizzarro scrivano agisce come un oscuro presagio sulle certezze granitiche che cullano l’American dream).
Esiste dunque una linea di contatto – non immediata, ma precisa e profonda – tra le opere selezionate, ovvero un soffocato messaggio di fragilità emesso per tre volte dalla civiltà occidentale lungo la parata del proprio ottimismo culturale. La letteratura americana infatti ha semplicemente anticipato una lettura della realtà che riguarda l’intero sistema delle società industrializzate.
Sul piano formale, si tratta di tre short stories, tre racconti, ovvero il formato breve che secondo Edgar Allan Poe mirava ad essere consumato in un’unica sessione di lettura (a differenza del romanzo che di norma accompagna il lettore su di un periodo temporale prolungato). In questo la short story è il prodotto letterario che più si avvicina al teatro, nel suo mandato effimero che lo orienta a manifestarsi ed esaurirsi in una sorta di qui ed ora.
D’altronde, un primissimo interrogativo sorgeva di fronte alla trilogia dei Muta Imago: come mai orientarsi su di un materiale narrativo? E con quale approccio? Una riscrittura? Un adattamento alle forme più proprie del linguaggio teatrale?
All’interno del Festival Senari Europei 2019, ideato dal Florian Metateatro in collaborazione con l’Associazione Scenario, la trilogia si è dipanata come momento iniziatico, quasi un rituale per condurre il pubblico in una dimensione altra, più propizia ai territori dell’artificio. Per lo spettatore, l’appuntamento con i Racconti Americani ha funto nelle prime tre serate del festival pescarese da “linea di confine”, che separava i singoli spettatori dalla socialità verbosa del foyer e li consegnava trasformati alla seconda parte della serata, sintonizzati con la dimensione raccolta dell’ascolto.
Difatti, per la trilogia i Muta Imago hanno congegnato il concept di una installazione per parole ed immagini che rigoverna il canale percettivo del pubblico verso un grado di attenzione insolito, simile a quello che si attiva con l’utilizzo della radio, completato però da uno stimolo visivo del tutto peculiare.
Secondo questa soluzione, il pubblico è solo, insolitamente “padrone di casa”: manca la consueta presenza degli attori, non si sviluppa un’azione di scena. La scena medesima scompare, non si capisce dove essa inizi e dove finisca la platea. Si tratta di un protagonismo rovesciato, spiazzante, decontestualizzato, perché a teatro – a differenza degli altri luoghi – lo spettatore aspira implicitamente ad essere guidato, finanche limitato, ma non a condurre.
Questa volta invece, davanti a sé può solamente scorgere un pannello dai contorni criptici e nell’attesa che qualcosa accada si avverte in sala il diffondersi di un sottile interrogativo. Poi la luce si spegne ed allora si chiariscono le regole del gioco: il pannello si accende, su di esso si disegnano delle immagini, accompagnate da una voce registrata che parla su di una base sonora. La voce è quella di Riccardo Fazi, che legge uno dei racconti della trilogia, anzi lo porge al pubblico, quasi a riconfermare quella specifica dinamica di ruoli.
Il testo rimane intatto nella sua consistenza narrativa: non è stato drammatizzato, non è stato trasformato da parola scritta a parola detta. Ciò implica per il pubblico l’attivazione di un ascolto “raddoppiato”, che sopperisca al senso della vista, dovendo assimilare tramite l’impalpabilità del canale uditivo un materiale che nasceva per essere decrittato tramite gli strumenti più solidi della lettura.
Gli occhi dello spettatore vengono invece trascinati lungo un sentiero “sensoriale” tramite una sequenza lenta, quasi danzata di immagini di puro riferimento: non raccontano, non descrivono un’azione o un evento, né mirano a trasporre visivamente ciò che parallelamente viene detto dalla voce recitante. Del testo compaiono dettagli, scorci, sequenze come se provenissero da una soggettiva del narratore (ad esempio, la neve per Jack London, i grattacieli e gli uffici per Melville, l’acqua e le foglie caduche per Cheever).
Ciò produce un effetto quasi ipnotico sullo spettatore, impegnato allo stesso momento sulla sonorità di un testo che resta formalmente letterario e che dunque impone una elaborazione razionale.
Il dato sorprendente è che questo mix di stimolazioni apparentemente contrastanti funziona perfettamente: l’attenzione di noi spettatori rimane alta, costante lungo tutti gli snodi dei singoli racconti presentati. Riccardo Fazi decide per uno stile denotativo, poco o niente recitato, quasi a voler conservare gli equilibri minimali di una comunicazione delicata come un cristallo.
Si nota anzi un crescendo nel corso della trilogia. Sul piano formale e visuale cambia la superficie che ospita i video firmati da Maria Elena Fusacchia:
– uno schermo tondo sospeso a mezz’aria per Fare un Fuoco;
– un pannello rettangolare composito e scanalato per Bartleby, solidamente poggiato a terra ed esteso in altezza;
– di nuovo in aria, infine, per The River (da Il Nuotatore di John Cheever) con un riquadro sospeso in alto, stretto e largo come un dipinto sofisticato.
Il crescendo riguarda il colore della recitazione di Riccardo Fazi, quasi scabro nel primo racconto, poi sempre più coinvolto e ricercato, pur mantenendo sempre un tono denotativo. Lo stesso può dirsi della drammaturgia sonora di V. L. Wildpanner, capace di fomentare atmosfere intersecando i tempi del testo con istinto sagace.
Questa chimica produce risultati sorprendenti. Ad esempio in Bartleby, l’incedere del racconto conduce a sottolineare la statura del personaggio del narratore (l’avvocato presso cui lo scrivano trova impiego) che diviene quasi il reale protagonista del racconto grazie alle curvature drammatiche che il testo acquisisce per effetto del trattamento dei Muta Imago.
Ecco dunque dove orientare il secondo grande quesito: come mai un lavoro teatrale su di un materiale narrativo – che non viene riadattato – non approda alle forme del teatro di narrazione? Qual è l’effetto che si intende produrre da questo intreccio alternativo di teatro e letteratura?
Con i Racconti Americani i Muta Imago ci dimostrano le capacità “manipolative” del teatro come semplice luogo, come semplice situazione. Pur dentro un approccio massimamente conservativo verso i testi proposti, questi subiscono trasformazioni e ribaltamenti interni, quasi animati da un soffio di vita dentro un corpo di creta.
Se prese letterariamente le tre short stories mostravano una parabola discendente (dal resoconto adrenalinico del racconto d’azione di Jack London alla liquidità ineffabile dell’affresco di John Cheever) le tre installazioni dei Muta Imago ci conducono attraverso un percorso incalzante, capace di rendere plastica e palpabile una crisi esistenziale sempre più sommersa nei territori psichici.
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CREDITS:
RACCONTI AMERICANI
“Fare un Fuoco” da Jack London
“Bartleby, lo Scrivano” da Herman Melville
“The River” da John Cheever
Di Muta Imago
Regia Claudia Sorace
Drammaturgia sonora e voce narrante Riccardo Fazi
Musica originale V. L. Wildpanner
Video Maria Elena Fusacchia
Produzione Muta Imago
Festival Scenari Europei 2019 (V edizione)
Florian Metateatro (Centro di Produzione Teatrale)
Collaborazione con Associazione Scenario