Est (2017), Ovest (2018) e senza scomodare gli altri due punti cardinali, Biennale Musica e il suo direttore artistico Ivan Fedele tornano a casa, in Europa, cercando nella nostra tanto bistrattata comunità quel compendio di nuovi artisti e compositori che possa darci un aggiornamento sullo stato dell’Unione.
Premiato quest’anno Sir George Benjamin che riceve il Leone d’Oro dalle mani di Fedele e del presidente di Biennale, Paolo Baratta, con la motivazione di essere
“universalmente riconosciuto come uno dei compositori più importanti del nostro tempo […] Benjamin rappresenta per le nuove generazioni di compositori un modello unico per fantasia creativa intelligenza di scrittura e sapienza della forma”
Certamente le motivazioni sono fatte per essere inoppugnabili, per giustificare la scelta.
Mai come in questo caso, per chiunque sia uscito dalla Sala del Teatro Goldoni a fine concerto, sono state più che veritiere.
La rappresentazione in forma di concerto, da programma di sala, ma in forma quasi scenica tanto il trasporto degli interpreti, dell’opera “Written on Skin” è stata stupefacente.
Una combinazione ben miscelata da un libretto di Martin Crimp artisticamente e poeticamente autoportante tanto da poter funzionare come rappresentazione teatrale e una musica, orchestrale e vocale, variegata e poliedrica che si discosta completamente da certi automatismi fine a sé stessi in cui il fluire testuale cozza con la ricerca compositiva.
Un’opera contemporanea che data anche la tematica sessuale ma non volgare e macabra ma non inutilmente effettistica cattura costantemente l’attenzione del pubblico.
La trama è il più classico del triangolo (con l’eccezione che in questo caso il soprano si intrattiene con il controtenore e non con il tenore). Il Protettore, padre padrone, ingaggia il Ragazzo per illustrare la gloriosa storia della propria famiglia non pensando che tenere un giovane artista in casa per mesi possa essere quanto meno un problema per la propria relazione patriarcale con la moglie, Agnès. Svelato che il Ragazzo non solo non ha illustrato come doveva il libro di famiglia ma ci ha pure descritto gli amplessi amorosi, il Protettore lo uccide e ne fa mangiare il cuore alla moglie.
Tutti e cinque gli interpreti hanno dato prova di far parte dell’opera stessa.
Christopher Purves, nel cast originale del 2012 a Aix-en-Provence, è stato un magnetico e caleidoscopico The Protector, capace di far visualizzare l’intera scena con la sola forza della sua interpretazione. Per essere una parte da basso-baritono la difficoltà esecutiva richiesta da Benjamin è al limite dell’estensione vocale e Purves non solo esce dai passaggi più impiccati con una recitazione coinvolgente ma rafforzando il proprio personaggio, così scavato nella sua persona da rimanere in ruolo anche nei momenti di pausa.
Ottima anche la performance di Georgia Jarman (Agnès), capace di delineare al meglio un personaggio sfaccettato che passa da oggetto di possesso a donna con una dignità e un’identità quasi maligna. Un personaggio che per volere del compositore subisce una evoluzione continua richiedendo uno sforzo vocale e mimico, così come l’ambiguità ineluttabile del controtenore James Hall (Angel 1 / The Boy), algida presenza narrativa fin dall’incipit in cui in qualità di angelo conduce il coro (gli altri due angeli) alla presentazione della storia ambientata ottocento anni prima.
Funzionali le prove dei comprimari Victoria Simmonds e Robert Murray ma non per questo meno importanti.
Ottima la prova dell’Orchestra Sinfonica della RAI. L’importanza di questa orchestra nel panorama europeo non è una novità ma sorprende la loro capacità di passare da un repertorio classico (tipico della loro programmazione) ad una buona prova anche nel contemporaneo, come per la celebrazione a Tan Dun nel 2017.
Merito anche del direttore Clemens Schuldt molto attento agli equilibri orchestrali e alla loro coesione con i cantanti.