ASSEDIO andato in scena al Teatro Ghirelli di Salerno il 19 ottobre 2019 (ore 18)
riscrittura Pino Carbone da Cyrano de Bergerac di Rostand e materiali raccolti sull’assedio di Sarajevo
con Anna Carla Broegg, Alfonso Postiglione, Francesca De Nicolais, Renato De Simone, Rita Russo
musiche e suoni originali eseguiti dal vivo Alessandro Innaro e Marco Messina
costumi Annamaria Morelli
scenografie Luca Serafino
produzione Teatri Uniti
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PROGETTODUE andato in scena al Teatro Ghirelli di Salerno il 19 ottobre 2019 (ore 21) PenelopeUlisse|BarbabluGiuditta
scenografia e regia Pino Carbone
musiche originali Camera
aiuto regia Giovanni Del Monte
produzione Teatri Uniti in collaborazione con Ex Asilo Filangieri
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PenelopeUlisse
di Pino Carbone e Anna Carla Broegg
con Anna Carla Broegg e Renato De Simone
produzione originale Ente Teatro Cronaca/Vesuvio Teatro (2017)
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BarbabluGiuditta
di Pino Carbone e Francesca De Nicolais
con Rita Russo e Luca Mancini
produzione originale o.n.g. Teatri ed Eternit (2010)
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La seconda anteprima di stagione del Teatro Ghirelli è il progetto in forma di dittico/maratona del regista e drammaturgo Pino Carbone “Assedio” (ore 18) e “ProgettoDue” (ore 21).
L’idea nasce alla Biennale di Venezia su proposta di Antonio Latella di portare più lavori che raccontassero e rappresentassero il mio percorso artistico come in una “personale” di teatro – racconta Pino Carbone –. Ecco l’idea di recuperare il lavoro su Barbablù e Giuditta nato 10 anni fa mettendolo in relazione con Penelope e Ulisse. E di portare Assedio, il mio nuovo lavoro. È quindi come mettere in scena passato, presente e futuro del mio percorso.
Così Pino Carbone presenta “Assedio”, “PenelopeUlisse” e “Barbablù/Giuditta”, tre suoi spettacoli rispettivamente di oggi, del 2017 e del 2010.
Tra scritture inedite, richiami ai classici e impegno civile, il regista napoletano affronta il tema del conflitto: dal conflitto sociale e alla guerra al conflitto interiore e relazionale.
È sabato pomeriggio, ore 18, e siamo seduti in poltrona, pronti ad affrontare una maratona di teatro. Gli attori sono già in scena. Sono sette e alcuni di loro comodamente seduti, altri stravaccati su divani e soltanto una, una donna vestita elegantemente in nero, è in piedi al centro del proscenio e ferma, guarda davanti a sé. Il pubblico dovrebbe capire che lo spettacolo è già iniziato ma continua a cercare il proprio posto e rumorosamente scopriamo che la fila “B” è sparita per cui si salta dalla “A” alla “C”. Ovviamente per motivi logistici e assolutamente estranei allo spettacolo. Ma il tutto dà colore alla situazione. In effetti siamo sempre pronti ad “annusare” il mistero, anche dove, forse, non c’è.
Finalmente la calma ed il silenzio consentono all’attrice di iniziare con una velocissima presentazione formale. Poi cominciano i giochi.
Assedio è un lavoro di adattamento e riscrittura dal Cyrano de Bergerac, classico di Edmond Rostand di fine ‘800, che trasporta l’eroe romantico ai nostri giorni, sullo sfondo dell’assedio di Sarajevo, quando la guerra irrompe nella vita con le sue devastazioni mutandone per sempre i destini.
La scena è sovraccarica a testimoniare una frenetica necessità di accumulare beni di conforto: dalle taniche di acqua, da cui ripetutamente bevono gli attori come da una fonte di ispirazione, ai copioni, ai microfoni posizionati ovunque ad amplificare l’urgenza dello spasimo e del grido d’aiuto. Divani, poltrone, scrivanie, tavolini, ventilatori, lampade, pupazzi, oggetti di una normalità che deve continuare a scandire il ritmo della vita sono lo scrigno claustrofobico in cui tutto avviene in fretta, perché non c’è tempo. Un televisore acceso da cui straripanti e silenziose arrivano scene di guerra e distruzione. Un telefono che rimane muto.
È qui, in questo che appare subito come un covo, che si sono rifugiati sette individui per prepararsi a una guerra imminente: il giorno dopo sarà il 5 aprile. Per la precisione del 1992. L’assedio di Sarajevo.
Bravissimo Cyrano nella sua sofferta e lancinante dichiarazione d’amore, voce potente e suadente, Alfonso Postiglione riempie la scena già piena della straripante presenza dei suoi compagni di lavoro. Energia allo stato puro, ricerca e sperimentazione di gesti, azioni e suoni che coinvolgono e soddisfano l’inesauribile voglia del pubblico di essere ‘sorpreso, catturato e stimolato’. Una girandola continua di spogliazioni (non spogliarelli) e vestizioni a sottolineare il cambio di ruoli e situazioni, mentre i capelli delle donne diventano strumenti e simboli determinanti quando vendono racchiusi da elastici che condizionano e mortificano l’esplosione libera della gioia e della libertà.
La guerra incombe e poi inizia l’assedio. Le taniche rivelano la scritta “Non siamo morti stanotte” strette una di fianco all’altra diventano barricata e muro di separazione/protezione dal mondo esterno che costringe a smontare la scena privandola di ogni conforto materiale. A quanto si deve rinunciare per sopravvivere? I cuori continuano a battere in una fibrillazione esasperata. I musicisti vibrando al massimo della potenza oscillano sulle gambe, col movimento ossessivo della testa imprimono anche con il corpo l’identificazione assoluta con le note. Troppo alta la musica. Sicuramente effetto voluto, risultato raggiunto, ma le orecchie si lamentano.
Cifre luminose sul fondale, in alto, numeri che scandiscono i secondi ed i minuti come un martello pneumatico e pompano forza alla brutalità e alla violenza.
La lotta continua fra due atlete che fra il rosso e il blu delle divise mantengono posizioni di attacco e difesa. Il bello stremato sul divano e il poeta di spalle impotente. L’amore di Rossana in pigiama, con una improbabile parrucca sempre al centro tra Cristiano, la forma, e Cyrano, l’essenza, viene triturato dal rumore assordante e prepotente del suono che irrompe e travalica la scena a disturbare fisicamente e psicologicamente lo spettatore.
Quando scoccherà l’ora X sullo sfondo un timer si attiverà come una fosse una bomba e sarà l’assedio: «È iniziato, 5 aprile, apre il Luna Park Sarajevo»: ancora il gioco. Intanto la scena si svuota, si disintegra come dopo una detonazione. 14 minuti e 25 secondi, come i 1425 giorni di assedio a Sarajevo, il timer si ferma.
Applausi, ben meritati, hanno gratificato gli attori tutti bravi.
Si accendono le luci e si aprono le porte. Si esce.
Si rientra in sala alle 21. PROGETTO DUE
Il lavoro sui testi nasce per entrambi i lavori (una fiaba e un mito) da un gioco drammaturgico: il regista uomo ha scritto le parole dei personaggi femminili (Giuditta e Penelope) e le autrici donne quelle di Barbablù e Ulisse: un rovesciamento dei punti di vista.
Il pubblico è in gran parte cambiato. Anche la scena: quasi vuota, essenziale come se la guerra avesse il potere di rendere valore agli oggetti. Solo quelli necessari! Un tavolo, quattro sedie, due dentro e due fuori dal ring delineato da un tracciato bianco. Quattro attori due donne e due uomini: due dentro a combattere a colpi di microfono con tanto di filo lungo che segue e si muove in scena come un serpente, anzi due (due sono i microfoni) a dare voce ai sentimenti e alle passioni che vibrano in questi due tempi di spettacolo intensi, vibranti, passionali, faticosi come faticosa è l’arte del vivere.
Si spogliano e si rivestono di continuo in una danza rituale che neutralizza l’esibizione. Tutto è marcatamente, esageratamente, parossisticamente materico, ma nello stesso tempo sfumato nella sua forma. Ossimoro come il ghiaccio bollente!
Il mito non è dissacrato, ma sviscerato, analizzato, contestato, rivoltato e scambiato nei ruoli. Ulisse l’eroe e Penelope la sposa fedele si scambiano i vestiti, le battute in una colta sofisticazione anche un po’ impertinente.
Pino Carbone, autore e regista è presente in scena, seduto in prima fila, con il cappello come costume, interrompe, interviene, corregge, indirizza, recita il suo ruolo di regista. La scena ricomincia, gli attori entrano ed escono dal personaggio marcando le loro rimostranze. È un gioco interessante. Mito e realtà con un libro in cui è scritta la storia di Ulisse, ma non quella di Penelope.
Il testimone passa ai due attori che attendevano ai lati del ring. Entrano Barbablù e Giuditta.
Il tavolino è ora uno scrittorio al quale siede un uomo dalla barba blu. Parla di un mostro, di un essere che fa paura, tenuto lontano da tutti. Registra le proprie parole per poi riascoltarle ancora e ancora. Un meccanismo che puntellerà tutta la rappresentazione di BarbabluGiuditta. L’oralità della fiaba, la sua ripetizione.
Perché poi le favole sono sempre intrise di paura? Per incutere timore ed ottenere obbedienza?
Il vestito da sposa è indossato ora da una donna/ bambina che cammina in ginocchio fisicamente e metaforicamente. La favola è nota e purtroppo estremamente attuale nella drammaticità della cronaca nera. La violenza familiare, il femminicidio, come si dice oggi, è tristemente balzato in prima pagina di un quotidiano che non vorremmo mai leggere. Il disagio palpabile e la paura che prende corpo, quasi un nuovo angosciante protagonista della storia, la potenza e il volume della musica assieme alla dinamica gestuale dei corpi in una lotta straziante hanno reso stressante assistere alla scena.
Il finale vede il mostro denudato che racconta la sua triste versione ma la crudezza anche se rivestita da forza scenica è davvero necessaria?
Le tragedie classiche raccontavano gli episodi cruenti senza mai mostrarli in scena eppure lì è nata la “catarsi”.
Bravi gli attori. Regia brillante, dinamica, convincente e stimolante. Applausi convinti. Dalla scena è arrivata al pubblico la passione del teatro.
A volte ci si sorprende a ricordare che il teatro parla a tutti i cuori.