Fare di un caposaldo della letteratura russa come Il maestro e Margherita una trasposizione teatrale è impresa a dir poco ardua. Riuscire nell’esperimento è ancora più complesso. Lo spettacolo, andato in scena al Teatro Duse di Bologna, ha centrato l’obiettivo grazie a un lavoro intelligente di pulizia, sottrazione, in grado di concentrare un romanzo di più di trecento pagine in una versione essenziale che ne coglie ogni aspetto, sia narrativo sia filosofico.
Il primo, immenso lavoro, è stato svolto dalla sceneggiatrice Letizia Russo che, con estrema cura, ha saputo far vibrare ogni parola della splendida opera di Bulgakov e ne ha lasciati intatti i piani narrativi, intrecciandoli tra loro con grande armonia. Non da meno la traduzione registica di Andrea Baracco capace di far rivivere, agli appassionati del capolavoro del ‘900, la mirabolante narrazione e, a chi non lo conoscesse, di addentrarsi in una storia ricca di fascino, ambiguità, mistero e turbamenti.
La messa in scena nella sua semplicità è impeccabile ed è resa ancor più accattivante dal meraviglioso gioco di luci intessuto da Simone De Angelis sui personaggi. L’atmosfera è cupa, lugubre e racchiusa dentro tre pannelli di ardesia scura che danno un senso di claustrofobia, racchiudendo così tutte le angosce dei protagonisti, le contorsioni della mente e del corpo, i desideri reconditi, inconfessabili, le teorie della ragione che intendono sconfiggere e rinnegare l’esistenza di Dio. Proprio il diavolo, Woland – interpretato da uno strepitoso Michele Riondino – con il suo eccentrico seguito darà, in un gioco di paradossi, gli strumenti per far capire agli uomini quanto siano in realtà piccoli davanti all’immensità del creato, quanto siano finiti, come dirà Woland a Berliotz “Il vero male non è tanto che l’uomo sia mortale ma che lo sia in modo inaspettato”. E chi è a decidere la morte? Quando avviene? Sotto quale forma si manifesta?
Dentro questo spazio angusto l’enorme lavagna circoscrive la scena come una sorta di arena dentro la quale i personaggi sono sputati e risucchiati dalle porte che si aprono e chiudono nei lati. Piccole, anguste fessure dalle quali escono ed entrano i protagonisti della pièce e, al centro, una porta più grande che funge quasi come un secondo sipario. Il sipario del Male. Ad adornare tutta quest’oscurità sulle pareti della lavagna ci sono disegnate immagini primordiali, quasi cavernicole di scheletri, segni geografici e disegni di varia natura ai quali si aggiungono nel corso della narrazione, frasi scritte dai protagonisti. Una tra tutte, la più emblematica: “liberati da maligno sono rimasti maligni”.
I tre piani narrativi del racconto trapelano anche nella trasposizione teatrale e s’intersecano senza sovrapporsi. Cosi l’amore, tormentato e infausto, tra Margherita e il maestro s’intesse con la discesa in terra del diavolo nelle vesti di Woland, un esperto di magia nera accompagnato da una cricca di personaggi stravaganti che mettono scompiglio in tutta la città. Infine, con un salto temporale di secoli, ci si catapulta dove Ponzio Pilato processò Gesù e lo condannò a morte. Tre piani ben amalgamati per creare un unico racconto che scorre veloce e tiene lo spettatore incollato alla sedia e lo induce a riflettere: “che cosa farebbe il tuo bene, se non esistesse il male? E come apparirebbe la terra, se ne sparissero le ombre? Le ombre provengono dagli uomini e dalle cose”.
A chiudere il cerchio un cast di attori di grande spessore: oltre alla star, il mefistofelico Michele Riondino, nei panni di un claudicante ma signorile Lucifero, spiccano Francesco Bonomo, nelle duplici vesti di Pilato e del Maestro e Federica Rosellini, Margherita, molto brava nella recitazione fisica un po’ meno possente dal punto di vista vocale. Oltre ai protagonisti un plauso va fatto anche a tutti gli attori in scena, meritevoli di elogio in egual modo, tra tutti, Alessandro Pezzali nei panni di Korov’ev il bizzarro maggiordomo di Woland.
Il gran finale è accompagnato da un tappeto musicale d’eccellenza che va da Magneto di Nick Cave per sigillare l’amore assoluto, come quello tra il maestro e Margherita: “Ci siamo recisi a vicenda il cuore e tutte le stelle sono spruzzate e schizzate sul soffitto”. E, per finire, prima del tripudio di applausi finale, non poteva che esserci Sympathy for the Devil, canzone scritta dai Rolling Stones nel 1967, ispirata proprio all’opera di Bulgakov.
Ed ecco che si esce da uno spettacolo sull’elogio dell’imperfezione umana che si contrappone alla nuda luce divina, perché solo attraverso le ombre la luce acquisisce ancora più nitidezza, ed è solo con la facoltà di scelta (anche tra il bene e il male) che l’uomo può esercitare la propria facoltà di giudizio, coltivare il dubbio: “mio è l’istante che segue la disperazione, la rivolta, la libertà”.