Il pluripremiato team di film-maker che ha realizzato The Beatles: Eight Days a Week – The Touring Years passa ad occuparsi di un altro fenomeno musicale con PAVAROTTI, un racconto approfondito che non tralascia nulla della vita, della carriera e del lascito ininterrotto di questa icona musicale.
Soprannominato “il tenore del popolo”, Pavarotti rappresentava una rara combinazione di personalità, genio e celebrità e utilizzava le sue doti prodigiose per diffondere l’opera come spettacolo capace di essere apprezzato da tutti gli amanti della musica. Grazie alla forza del suo talento, Pavarotti ha dominato i più importanti palchi del mondo, conquistando il cuore del pubblico. Questo spaccato di vita di un uomo eccezionale e di un gigante della musica, diretto dal vincitore di Academy Award Ron Howard, contiene rare interviste a familiari e colleghi, materiale video inedito e un avanzatissimo audio Dolby Atmos.
Polygram Entertainment e Brian Grazer presentano una produzione Imagine Entertainment e White Horse Pictures di un film diretto da Ron Howard, PAVAROTTI. Con la regia di Ron Howard, il film è prodotto da Nigel Sinclair, Brian Grazer, Ron Howard, Michael Rosenberg e Jeanne Elfant Festa. Il montaggio è di Paul Crowder A.C.E. La sceneggiatura è di Mark Monroe. I produttori esecutivi sono David Blackman, Dickon Stainer, Guy East, Nicholas Ferrall, Paul Crowder e Mark Monroe. Il co-produttore esecutivo è Cassidy Hartmann. Il produttore di supervisione è Mark McCune. Missaggio del suono ri-registrato a cura di Chris Jenkins e Sal Ojeda.
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LA PRODUZIONE
Aveva una delle voci più spettacolari e uno dei cuori più espressivi della storia umana ma, nel documentario di Ron Howard, lo straordinario Luciano Pavarotti viene mostrato come mai prima d’ora: in un primo piano di incantevole intimità, scavando in profondità, al di là della gloria della sua musica e della forza del suo carisma, per metterne in luce le battaglie nella vita privata, il suo senso dell’umorismo e le sue speranze. Rimandando ai temi universali che hanno mantenuto viva l’opera per tutto il XXI secolo – amore, passione, gioia, famiglia, perdita, rischio, bellezza – il film tesse il racconto di un uomo che scopre, si confronta e finisce per imparare a domare l’enormità monumentale delle proprie doti.
La voce dalle tonalità preziose di Pavarotti parla da sé. Ma qui Howard si ripropone di rivelare l’uomo, imbattendosi incessantemente in un affascinante essere umano fatto di contrasti — che combina una leggerezza infantile a un’anima profonda, una forte lealtà nei confronti dell’educazione contadina e quell’enigmatico non so che grazie a cui solo alcuni raggiungono i confini di quanto umanamente possibile.
Pavarotti è il terzo di una serie di documentari che Howard ha diretto, esplorando grandi stelle della musica — sulla scia del pluripremiato The Beatles: Eight Days a Week – The Touring Years e Made In America, che ha percorso, unico nel suo genere, il backstage del festival musicale di Jay-Z. La più grande stella dell’opera del mondo moderno potrebbe sembrare un soggetto meno consono per il regista vincitore di Oscar. Certo, Howard aveva brevemente incontrato Pavarotti molto tempo prima e ne era rimasto affascinato. Chi non sarebbe attratto da un vulcano creativo che si è ritagliato un posto unico nella storia come la “rock star” dei cantanti lirici, un gigante che ha ridotto le distanze tra cultura artistica “alta” e cultura popolare, come se i confini tra le due fossero pura illusione? Ma Howard non era esattamente un esperto di opera lirica.
Eppure, proprio per questo, Howard ne è rimasto tanto affascinato. Quando Nigel Sinclair, con cui Howard ha precedentemente lavorato a The Beatles: Eight Days a Week e Rush, gli accenna che Decca Records sta cercando un film-maker in grado di far risaltare l’essenza della vita e della musica di Pavarotti in un documentario di ampio respiro, Howard sente lo stimolo a saperne di più. Tuffandosi in ricerche approfondite, scopre l’emozione che comporta entrare nel mondo di Pavarotti con uno sguardo pulito, quello di chi è appena arrivato all’opera, esattamente il tipo di persona che Pavarotti amava tanto raggiungere.
Il fascino si trasforma presto in ispirazione, quando Howard trova anche una storia a cui non sa resistere: quella di un uomo di provincia che, balzato fulmineamente al culmine della celebrità, cerca di trovare il modo per portare con sé anche tutte le sue emozioni, le ansie, i sogni e l’amore verso gli altri. Forse l’origine della sua magica voce resterà per sempre un mistero, ma ciò che attira l’attenzione di Howard è il modo in cui Pavarotti ha imparato a farne uso.
“Più ne sapevo, più arrivavo a vedere Pavarotti come qualcuno che ha saputo dimostrare di poter vivere la vita con passione e con totale dedizione verso ciò che si ama”, dice Howard. “Inizialmente ero completamente assorbito dalla portata del suo viaggio, questa carriera straordinaria, sempre ai massimi livelli, il successo su tutti fronti. Ma osservando la sua vita più da vicino, ho visto anche che ha dovuto sostenere l’impatto causato dai tanti rischi artistici presi. Non mi aspettavo quel risvolto drammatico, che me l’ha fatto sentire estremamente umano”.
Per conferire al film quell’umanità che tanto desiderava trasmettere, Howard ha coinvolto lo stesso team di film-maker che ha lavorato con lui a Eight Days a Week, applaudito per l’esuberante immersione nei primi anni dei Beatles. Non solo i produttori, Sinclair e Brian Grazer, affiancati da Michael Rosenberg di Imagine e Jeanne Elfant Festa di White Horse Pictures, ma anche Mark Monroe per la sceneggiatura, Paul Crowder al montaggio e Chris Jenkins al missaggio del suono. Con Howard, il team ha messo insieme una grande quantità di suoni e immagini.
Mentre si destreggiava tra materiale video raro, gli spettacoli più prestigiosi, le interviste di archivio e decine di nuove interviste, Howard ha individuato una tensione nell’uomo-Pavarotti. Da un lato c’era questo personaggio spontaneo e spensierato che apprezzava il bello della vita con vivace umiltà. Dall’altro, però, c’era un uomo che lottava contro le complessità causate dalla sua enorme notorietà, da aspettative alle stelle e relazioni turbolente – il tutto accentuato dal suo crescente senso di responsabilità, che lo spingeva a trovare una maniera per utilizzare la sua voce e il suo potere per scopi più gratificanti e duraturi della semplice fama.
Il tutto aveva un carattere così tipico dell’opera lirica, che Howard ha escogitato l’idea di strutturare l’intero film come un’opera in 3 atti. Dopo tutto, cos’altro poteva essere la vita di Pavarotti? Questo concetto ha dato forma all’intero progetto. Ora Howard poteva considerare il film come un’opera drammatica punteggiata da arie appassionate, sottolineando il contrasto tra uno spettacolo straordinario e i puri elementi umani del quotidiano.
“Ho visto il film come un’opportunità per esplorare la vita di Pavarotti attraverso del materiale video inedito e interviste confidenziali sia con lui, che con gli amici e i familiari più vicini”, dice Howard. “Ma ho anche capito che uno degli obiettivi più ambiziosi di Pavarotti era di ampliare la portata della sua arte, per fare innamorare dell’opera il maggior numero di persone possibile. A ogni occasione si faceva in quattro, che fosse insegnando o viaggiando nel cuore dell’America o della Cina, per mostrare alla gente il potere dell’opera. Perciò personalmente spero che il nostro documentario possa contribuire a portare avanti quel lavoro. Luciano amava così tanto la musica. E amava così tanto la gente. E voleva portare la bellezza della musica a quante più persone possibili nel mondo”.
A tutti piaceva molto l’idea di utilizzare l’aria splendidamente lirica della Turandot di Puccini, Nessun Dorma, come ritornello emotivo ricorrente. Non solo è una delle interpretazioni più apprezzate di Pavarotti, ma anche uno dei successi crossover più amati dei nostri tempi nel mondo della musica classica. “Nessun Dorma è già potentissimo da solo, ma abbiamo cercato di utilizzarlo, assieme ad altre arie che Pavarotti prediligeva, cercando di sorprendere e di creare correlazioni con i temi della vita di Luciano”, dice Howard. “Spero che risulti evidente che queste arie non sono semplicemente delle belle canzoni, ma una forma di espressione che colpisce a tutto un altro livello di connessione emotiva”.
Anche se Howard è passato da poco al documentario, le storie vere non sono cosa nuova per lui. In una serie molto apprezzata di film drammatici basati su “vite vere” — incluso A Beautiful Mind, che si è aggiudicato il titolo di Miglior film, Apollo 13 e Rush, rispettivamente sulle vite di un matematico geniale, un astronauta eroico e due piloti rivali di Formula 1 – Howard ha utilizzato emozioni universali come mezzo per consentire al pubblico di accedere al mondo interiore di persone eccezionali, oltre che di apprezzarne la motivazione.
Qui adotta un approccio simile, seguendo una procedura ormai familiare, quella basata sulla dedizione alla ricerca. Ha ricevuto il sostegno degli eredi di Pavarotti, che gli hanno dato pieno accesso ai materiali.
“Il mio approccio è sempre stato quello di chi non è in realtà un esperto in nessuno di questi argomenti. Sono una persona che cerca di scoprire qualcosa e provo semplicemente a condividere con il pubblico ciò che imparo strada facendo”, spiega Howard. “Adoro i personaggi e sono affascinato dalla maniera in cui soprattutto le persone di successo vengono messe alla prova e stimolate. Con Pavarotti la mia domanda era: dove ha avuto origine questa incredibile abilità artistica? Non ha solo a che fare con la sua voce straordinaria. Deve per forza venire dal cuore – è il solo modo in cui è possibile dar forma a delle interpretazioni così vere da riecheggiare in eterno. Perciò volevo sapere tutto quanto possibile in merito a come Pavarotti coltivasse tutto questo e come gestisse il prezzo personale di essere diventato un artista celebre”.
Man mano che guardava ore e ore dei concerti più elettrizzanti di Pavarotti, Howard era sorpreso dalla profondità emotiva che il cantante riusciva a raggiungere — profondità che aveva visto prima solo nei grandi attori. “Ero semplicemente impressionato da ciò che gli occhi di Pavarotti comunicavano durante le sue interpretazioni”, dice Howard. “Come una sorta di attore del metodo Acting che tira fuori emozione profonde a partire da un dolore personale con cui entra in connessione. Non importa chi tu sia, la purezza che trasmette ti emoziona per forza”.
Senza limitarsi alle esibizioni, Howard e il suo team hanno passato al setaccio archivi pieni di interviste concesse da Pavarotti a talk show televisivi e riviste, alla ricerca di elementi significativi. Poi hanno condotto 53 nuove e approfondite interviste a New York, Los Angeles, Montreal, Londra, Modena e Verona tra aprile 2017 e giugno 2018. Questa serie di conversazioni ha messo in campo i punti di vista non solo di mogli, familiari, studenti e colleghi sia del mondo dell’opera che del rock, ma anche i commenti di manager, promoter e addetti al marketing che hanno contribuito a delineare l’insolita traiettoria della sua carriera e a portare l’opera in luoghi in cui non era mai stata prima di allora.
Ognuna di queste conversazioni è stata una rivelazione che ha aperto nuove prospettive sui dubbi e sui tormenti più nascosti di Pavarotti e sul suo desiderio di conciliare le enormi ambizioni con gli amori e la vita di un uomo qualunque.
“Ho trovato particolarmente interessanti le interviste ai familiari”, dice Howard. “Sono interviste emotive, che non hanno rilasciato con facilità, ma sono loro grato perché penso che esprimano tutta l’umanità della sua storia, rendendo il nostro lavoro molto più della presentazione di un fantastico performer. Raccontano la storia di un viaggio complesso, fatto di alti e bassi, che tutti hanno percorso assieme”.
Poi sono arrivate le scoperte più sorprendenti del film: video amatoriali di Pavarotti mai visti prima. Questo materiale di filmati “fatti in casa”, custodito da familiari e amici, fatto di sguardi nudi e crudi all’uomo dietro il sipario, a volte è arrivato a togliere il fiato ai film-maker.
Il film si apre con uno dei passaggi più stupefacenti e onirici di tutti. L’anno è il 1995 e il luogo è Manaus, in Brasile, nel cuore della giungla amazzonica. Qui, nel piccolo e misteriosamente magnifico teatro dell’opera conosciuto come il Teatro Amazonas, dove lo stesso Caruso una volta ha cantato, vediamo Pavarotti con addosso i pantaloni di una tuta, che si dona in totale abbandono di fronte ad una misera manciata di passanti. Girato dal flautista Andrea Griminelli, che all’epoca viaggiava con Pavarotti, il video non era mai stato condiviso pubblicamente.
“È il mio preferito, perché è l’unica volta in cui si vede Pavarotti cantare per se stesso”, dice la produttrice Jeanne Elfant Festa di White Horse Pictures. “Lo si vede intento a catturare quello che il suo idolo, Caruso, deve aver sentito nel cantare lì. C’è voluto molto tempo per acquisire questo materiale video inedito, ma ne è valsa la pena. È emozionante, significativo e molto bello”.
Molti dei rari filmati fanno parte della collezione privata di Nicoletta Mantovani, moglie di Pavarotti all’epoca della morte e madre di Alice, la loro figlia, oltre che responsabile della Casa Museo Luciano Pavarotti a Modena. La Mantovani ha generosamente offerto il suo supporto alla produzione sin dall’inizio.
“Ho sentito che era importante raccontare al mondo la storia di Luciano, perché non solo è stato uno dei più grandi artisti mai esistiti, ma aveva anche un grande cuore. Ho pensato che fosse un aspetto importante da condividere”, dice la Mantovani.
“Nicoletta è diventata un po’ la videografa del marito”, fa notare Howard, “e il caso ha voluto che questa fosse proprio l’epoca in cui iniziavano a essere disponibili videocamere di qualità. Ogni tanto gli faceva un’intervista, ed è una vera fortuna, perché Nicoletta lo ha immortalato in un periodo in cui aveva tanta saggezza e una prospettiva da condividere. E naturalmente con lei parlava in modo aperto, come non avrebbe mai potuto fare in un talk show. Questo girato è stato straordinariamente importante per il film, perché è lì che si vede davvero il suo lato giocoso e che incantatore e mattatore sapesse essere. Chi conosceva Luciano ci teneva a farmi capire che non era altro che un tipo senza pretese, che tra le altre cose era anche un grande artista. Si considerava un contadino che si era fatto strada offrendo tutto quanto aveva nell’anima e il suo personaggio era il risultato delle esperienze che aveva vissuto. Credo che i filmati amatoriali aiutino davvero a riflettere su questo”.
La Mantovani si è dimostrata fondamentale anche in altri modi. “Nicoletta è una persona meravigliosa che ci ha aiutati a ottenere interviste con star piene di impegni, come Plácido Domingo e José Carreras”, dice il produttore Nigel Sinclair. “Ci ha consentito di accedere a tutti gli archivi conservati al Museo Luciano Pavarotti. E ci ha presentato la sua prima famiglia: la prima moglie, Adua Veroni, e le loro tre figlie, Cristina, Lorenza e Giuliana Pavarotti, che hanno tutte concesso un’intervista per la prima volta, un’esperienza estremamente intensa ed emozionante. Le figlie si sono tutte commosse durante le interviste, rivivendo il tempo passato con il padre. Avere un padre famoso non è facile per nessuno, che sia una pop star, un divo del cinema o un cantante lirico, e qui lo si vede chiaramente”.
Attraverso tutto questo processo, Howard ha collaborato con lo sceneggiatore, Mark Monroe, autore dei documentari premiati agli Oscar The Cove. La baia dove muoiono i delfini e Icarus e candidato a un Emmy Award per The Beatles: Eight Days a Week – The Touring Years. Come Howard, Monroe è rimasto affascinato dal personaggio Pavarotti, così squisitamente vicino alla natura dell’opera lirica — un uomo che ha fatto di tutto per tirar fuori le emozioni più delicate, vivendole però in una maniera esageratamente intensa e spesso “esposta” in un mondo complicato ed esigente.
“Credo che ciò che rende la voce di Pavarotti tanto al di fuori del tempo e duratura è il fatto che essa simboleggia tutte le nostre fragilità e vulnerabilità umane”, osserva Monroe. “Spero che, attraverso questo film, il pubblico lo vedrà com’era nella sua interezza, un uomo ‘bello’, con i suoi difetti, ma anche con delle doti e una generosità straordinarie”.
Per i produttori, la struttura del racconto ha funzionato in maniera misteriosa. “A volte ci si ritrova a piangere come una fontana, perché ci si sente partecipi della vita di quest’uomo”, dice Sinclair. “Credo che passino questo tipo di emozioni perché Ron è così affascinato dal processo umano, da come le persone entrano in relazione tra loro e sono influenzate dalle circostanze in cui si trovano. Le sue storie migliori hanno sempre avuto questa forza di base. Era assolutamente determinato a capire cosa rendesse Pavarotti l’uomo che era — e ogni sua scoperta è parte del tessuto del film”.
Jeanne Elfant Festa fa notare che il film ricorda di come Pavarotti rifiutasse qualsiasi confine tra le cosiddette forme d’arte “alte” e “basse”, presagendo il mondo culturale di oggi, più aperto e mobile. “Credo che oggi Pavarotti possa essere percepito per alcuni aspetti come una fantastica rock star perché è sempre stato un ‘perturbatore’”, dice. “Aveva un forte effetto sulle persone e mi piace moltissimo il fatto che questo sia evidenziato nel film di Ron”.
Howard spera che il film trovi l’equilibrio perfetto: abbastanza autentico da essere amato dai fan di Pavarotti e abbastanza accogliente nei confronti di chi non conosce l’uomo e la sua musica. Sottolinea che, per Pavarotti, la musica non doveva mai sembrare qualcosa di esclusivo o elitario. Per lui, l’opera era la musica della gente, di tutta la gente — in quanto piena zeppa di tutta la bellezza e il caos della vita di tutti i giorni.
“Pavarotti era cresciuto in una cultura in cui l’opera era uno spettacolo popolare e compreso da tutti”, spiega Howard. “Voleva riportare l’opera a quelle radici, ma nel mondo moderno. La sua umiltà è uno dei lati più belli e paradossali di Luciano. Era estremamente orgoglioso dei suoi successi e capiva di avere un potere incredibile, ma questo si accompagnava alla sua umiltà nei confronti della musica e della possibilità che gli offriva di raggiungere persone di ogni estrazione sociale”.
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SUONO E RITMO
Man mano che Pavarotti cominciava a prendere forma, Ron Howard lavorava molto a fianco del montatore, Paul Crowder, per creare un crescendo nel ritmo del film.
“La vita vera di Pavarotti presentava già in sé l’evoluzione di un’opera in tre atti”, osserva Crowder. “Nel primo atto della sua vita, passa da essere un insegnante locale a Modena al successo inaspettato come cantante lirico; il secondo atto è l’epoca dei Tre Tenori, caratterizzata sia da un’incredibile notorietà che da fortissima insicurezza; e l’ultimo atto è quello del periodo di Pavarotti and Friends, quando raccoglieva fondi per associazioni umanitarie a favore dell’infanzia, allargandosi a collaborazioni con artisti di ogni tipo, portando l’opera in nuovi luoghi e a nuovi pubblici, realizzando il suo sogno. Quindi c’erano già tutti gli ingredienti e il nostro compito è stato di dar loro una forma – e fondere il racconto con la musica di Pavarotti, per dare enfasi ai momenti emozionanti della storia”.
Nigel Sinclair fa notare che Crowder ha un suo modo di infondere al materiale di archivi polverosi una vitalità immediata e dirompente. “È in grado di prendere delle fotografie e farti sentire che sono delle immagini in movimento”, dice Sinclair. “E ha montato il racconto sulle musiche di Pavarotti come se stesse dipingendo con la musica”.
Altrettanto fondamentale per il team è stato Chris Jenkins, tre volte vincitore di Academy Award (Mad Max: Fury Road, L’ultimo dei Mohicani, La mia Africa), che si è occupato del mixaggio del suono, creando un perfetto connubio tra la tecnologia audio multi-dimensionale del Dolby Atmos e l’eccellenza vocale di Pavarotti nei leggendari studi di registrazione di Abbey Road. Jenkins voleva trovare un nuovo mood per catturare la potenza della voce umana dal vivo – trasferendo nella sala cinematografica tutta la sensualità, la verve e l’intensità emotiva che si prova quando qualcuno canta in una stanza.
“La voce umana è il pezzo forte del nostro film, il più grandioso utensile che esista, musicalmente parlando. Niente è trasversale a tutte le discipline musicali ed è in grado di scatenare tutte le emozioni umane come la voce”, dice Jenkins. “E la voce di Pavarotti è lo strumento più raffinato. Per questo ritengo che la sua voce non rimanga limitata all’opera lirica, ma trascenda ogni categoria. La sua voce ha a che fare con quelle emozioni universali che cerchiamo in tutte le grandi opere di pittura, musica, gastronomia, nell’amore e nella compassione”.
Per Howard, il missaggio è stato essenziale per invitare il pubblico a far parte dell’esperienza, a prescindere dalla familiarità con l’opera lirica. Sebbene gli amanti dell’opera apprezzino sopra ogni cosa il suono naturale e non amplificato di una voce che riverbera in un teatro, questa è stata un’occasione per mostrare ciò che la tecnologia di registrazione più avanzata è in grado di fare per ricreare quel piacere così speciale. “Spero che sia i fan della lirica che i neofiti vivranno un’esperienza emozionante, memorabile e unica”, dice Howard. “Spero che la gente sia travolta dal suono nel film, grazie all’impatto che questa tecnologia è in grado di avere, alla sua capacità di raggiungere il nostro nucleo emotivo. Con Chris al mixaggio, siamo riusciti a realizzare tutto questo”.
L’uso della tecnologia Dolby Atmos, spiega Jenkins, ha consentito alla colonna sonora di catturare la voce di Pavarotti in una serie di ambienti diversi. “A volte volevamo che il pubblico avesse la sensazione di essere solo in una piccola sala-prove con Luciano. E con questa tecnologia, siamo in grado di dare l’impressione di stare in una stanza di 4 metri x 4”, spiega. “Altre volte, siamo in Amazzonia o in una sala concerto o con I Tre Tenori in uno stadio all’aperto. Con il Dolby Atmos, siamo stati in grado di cambiare costantemente la portata e la scala del suono per rispecchiare ciascun ambiente”.
Jenkins ha utilizzato un’altra tecnica di registrazione — ri-amplificando l’orchestra — per rendere il suono più vivo possibile. Spiega: “Abbiamo preso le tracce vocali di Luciano e quelle dell’orchestra, le abbiamo trasferite allo Studio One di Abbey Road e le abbiamo ri-registrate con 12 microfoni posizionati per la stanza per simulare le condizioni effettive del campo sonoro in una sala cinematografica. In tal modo, la musica appare molto vicina alle registrazioni originali, pur creando uno spazio che in condizioni normali non si riuscirebbe mai a creare”.
Durante tutto questo processo, si sono impegnati a restare più fedeli possibile alle registrazioni e al girato dell’epoca. “L’intento è di mantenere la ‘granulosità’ di alcune immagini e alcuni suoni, perché questo ce li fa sentire autentici rispetto al periodo”, dice Jenkins. “Non abbiamo mai voluto rendere il sonoro più moderno per il puro gusto di farlo. Volevamo che desse ancora l’impressione di venire dal passato. Ma quando si ha solo una registrazione mono a cui segue Zubin Mehta che conduce un’orchestra di 80 elementi, diventa necessario giocare un po’ con quello che c’è in modo da rendere il tutto armonico. Questa è stata la difficoltà principale: aumentare la colonna sonora facendola passare da piccola a intima a più grande e a grandiosa – cercando di mantenere in primo piano il viaggio emotivo”.
Mentre lavorava con Howard, Jenkins ammette di aver avuto l’impressione che il loro lavoro fosse alimentato dalla connessione che hanno sentito con Pavarotti. “Se Pavarotti fosse ancora vivo e potesse vedere il film, spero direbbe che abbiamo rispettato la sua voce, che l’abbiamo al tempo stesso mantenuta esattamente com’era e che gli abbiamo amorevolmente reso onore”, conclude.
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LA VOCE
Cosa c’era nella voce di Pavarotti che ha toccato così tanti? Certo, aveva una portata strabiliante. All’inizio della sua carriera, Pavarotti ha stupito il pubblico dell’opera lirica con la sua capacità di arrivare meravigliosamente – e con apparente facilità – a tutti e nove i do di petto in La Fille du régiment di Donizetti. La maggior parte dei tenori traspone la nota in un più umano – sebbene tutt’altro che semplice – si bemolle, ma non Pavarotti. Con quella serie di do ha fatto entrare l’opera nella storia e si è guadagnato successivamente il titolo di “re dei do di petto”. Ma c’era più della semplice abilità tecnica, più perfino di quel “tintinnio” cristallino e di quella dolcezza mielata nella sua voce che i critici acclamavano. C’era anche, nel suo comportamento e nel suo tono, qualcosa di ineffabile che elevava lo spirito, una sorta di vitalità interiore, una generosità e un calore che penetravano nella pelle dell’ascoltatore come i raggi del sole. Ad oggi, la gente fa fatica a definire cosa fosse.
“Nessuno aveva una voce così pura. Era un suono naturale”, dice Dickon Stainer, amministratore delegato di Universal Music Classics and Jazz e un produttore esecutivo del film. “Il suo suono è così tipico che è riconoscibile in un nanosecondo. Ha a che fare con la natura del suo fraseggio e la bellezza della sua voce. Non scendeva a compromessi. Curava ogni singola frase, ogni nota. Ce l’aveva dentro, e usciva sotto forma di una bellissima, estesa espressione per tutti, sempre”.
In qualità di presidente del Classical Music Group presso Decca Records, l’etichetta che ha sostenuto a lungo Pavarotti, Stainer è divenuto un’altra risorsa fondamentale per il film. Ron Howard sottolinea che l’assistenza di Decca è stata cruciale. “Senza il sostegno di Decca, Pavarotti non diventa Pavarotti, perciò rappresenta una parte vitale della storia”, dice il regista. “E il supporto e i loro archivi hanno rivestito un ruolo inestimabile”.
Pavarotti ha iniziato a registrare per Decca nel 1964 e durante 6 anni di fertile creatività ha inciso qualcosa come 11 opere (e il Requiem di Verdi), che restano dei pilastri del suo lascito. Più tardi, Decca avrebbe ospitato l’inaspettato supergruppo più popolare degli anni Novanta: I Tre Tenori, il trio iconico formato da Pavarotti con i colleghi e star dell’opera lirica Plácido Domingo e José Carreras. Il trio, una delle più grandiose fusioni tra opera lirica e cultura popolare, ha aperto la Coppa del Mondo del 1990 a Roma. Lo spettacolo senza precedenti – in cui ciascun tenore sembrava spronare gli altri a raggiungere nuove frontiere, culminando in un Nessun Dorma da togliere il fiato — si è rivelato un momento rivoluzionario. All’improvviso, perfino i tifosi sportivi canticchiavano l’opera e I Tre Tenori sono diventati eroi degli stadi, alla stregua di Springsteen o dei Rolling Stones.
Stainer fa notare: “Per me, personalmente, il materiale video de I Tre Tenori e il fenomeno che il gruppo ha rappresentato è certamente speciale. Forse ora la gente non si rende conto di quanto andassero alla grande I Tre Tenori. Erano la ‘band’ più acclamata al mondo. Erano usciti dal nulla, eppure erano assolutamente autentici e non avevano mai cantato in quel modo come un unico trio. Si sono riuniti a Roma quella notte ed è qualcosa che il mondo non aveva mai visto prima e non rivedrà mai più. Ha cambiato un’industria”.
Per Stainer, non è solo l’immacolata chiarezza della voce di Pavarotti che continuerà a vivere – è il personaggio che è diventato esplorando tutti gli aspetti del proprio talento. “Era il figlio di un panettiere che è diventato la persona più famosa al mondo. Ma era anche una persona caritatevole che ha donato se stesso agli altri”, dice Stainer. “Aveva la capacità di fare una cosa che molti altri non erano in grado di fare con la voce – trascendere il proprio genere. Aveva quell’abilità magica di creare un’esperienza universale per le persone del mondo intero”.
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L’UOMO
Luciano Pavarotti è nato a Modena il 12 ottobre 1935, alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, figlio di un panettiere e tenore amatoriale. Ipnotizzato dalla voce del padre e dal suo idolo, Enrico Caruso, ha cantato durante l’intera infanzia. Ma nessuno poteva prevedere che la sua carriera lo avrebbe trasformato da modesto maestro di scuola elementare dei primi tempi a “re dei do di petto” sui palchi di tutto il mondo – o che un giorno le persone che non avevano mai ascoltato un’opera lirica avrebbero conosciuto e amato Pavarotti.
Incoraggiato dalla madre, che ha avvertito qualcosa di insolito nel timbro di voce del figlio, Pavarotti ha iniziato a studiare musica in maniera seria solo dopo aver vinto una gara regionale di canto. Ha debuttato sul palco interpretando Rodolfo in La Bohème di Puccini nel 1961, da subito colpendo per la sua intuitività e la sua disinvoltura. Durante tutti gli anni Sessanta, Pavarotti si è lentamente e accuratamente costruito una reputazione non solo per il timbro sempre più impeccabile e per l’impegno nelle interpretazioni, ma per la gioia e l’entusiasmo sconfinati per la vita che trapelavano sia dal canto che dal personaggio. È diventato noto al pubblico dei concerti di tutto il mondo per la sua collaborazione strategica con l’adorato soprano Joan Sutherland, soprannominata “la Stupenda,” mentre l’affetto reciproco impregnava le loro interpretazioni di intensa energia e sentimento.
Negli anni Settanta, Pavarotti si è ritrovato all’apice della sua potenza vocale e della sua arte del palcoscenico, trasformandosi in un’importante superstar internazionale e in un beniamino dei media. In un momento in cui l’influenza dell’opera sembrava essere in declino, la sua rapida ascesa è stata ininterrotta, tra interpretazioni epiche sui palchi di tutto il mondo e apparizioni in talk-show di seconda serata, dove affascinava tutti con il suo senso dell’umorismo concreto, il suo sorriso smagliante e le sue abilità in cucina. Una sera del 1973, quando la sua solita ansia da palcoscenico prima dello spettacolo l’ha reso grondante di sudore, si è portato in scena un enorme fazzoletto bianco, che presto sarebbe diventato uno degli elementi che lo contraddistinguevano, immediatamente riconosciuto. Negli anni Ottanta è arrivato a diventare il cantante più pagato nella storia dell’opera. Affacciandosi agli anni Novanta, le collaborazioni di Pavarotti con I Tre Tenori avrebbero riempito gli stadi, sfociando nell’album best-seller nella storia della musica classica.
Uno dei grandi paradossi di Pavarotti è che anche quando è arrivato a vendere oltre 100 milioni di dischi durante la sua vita, ogni spettatore credeva che stesse cantando proprio a lui, affinché lui solo ne facesse esperienza.
In effetti “il tenore del popolo” era sempre più attratto dalla gente comune, tanto quanto la sua voce era apprezzata nei circoli più raffinati. Per questo motivo ha dedicato l’ultima parte della sua vita a portare l’opera ai pubblici contemporanei, persino a quelli della musica pop, in maniere prima inimmaginabili. Dal 1992 al 2003 ha organizzato i Pavarotti and Friends nella sua città di origine — concerti di beneficenza con cadenza annuale assieme ad alcuni dei nomi più importanti dei diversi ambiti dello spettacolo, incluso il pop e il rock. Tra le personalità con cui ha collaborato ci sono Sting, i Queen ed Elton John a James Brown, Lou Reed, Bob Geldof, Bryan Adams, Andrea Bocelli, Meat Loaf, Michael Bolton, Sheryl Crow, Liza Minnelli, Eric Clapton, Celine Dion, Stevie Wonder, le Spice Girls, Natalie Cole, B.B. King, Enrique Iglesias, i Deep Purple e Tom Jones. Persino il Dalai Lama e gli attori Michael Douglas e Catherine Zeta-Jones hanno partecipato. Intanto i ricavati erano devoluti a cause umanitarie, quali l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati e War Child, l’organizzazione umanitaria britannica a sostegno dei bambini nei paesi lacerati dalla guerra e nelle aree di conflitto.
Sebbene fosse generoso ed egualitario, Pavarotti era anche complicato e contraddittorio come qualsiasi essere umano. Ha attraversato scandali e problemi coniugali e alcuni critici e amanti dell’opera hanno ritenuto che potesse mettere a repentaglio la sua arte. Diversi puristi della musica classica non sono mai riusciti ad accettare il fatto che abbia portato l’opera in enormi stadi pensati per lo sport e dalla pessima acustica. Ma, per quanto venisse detto, nulla sembrava mai intaccare la sua gioiosa sete di vita o la voglia di offrire se stesso come meglio poteva.
“Pavarotti era una persona fantastica, un tipo adorabile, ma era tutt’altro che stupido e aveva molto potere, e credo che entrambi gli aspetti si manifestino nel film”, dice Howard. “Alcune delle scene più divertenti lo vedono in realtà alle prese con le leve del potere. È piuttosto esilarante anche solo vederlo affascinare, adulare, forzare e gestire, finendo per crearsi delle nuove opportunità, in continuazione”.
Era capace di godere furbescamente nell’utilizzare la sua notorietà a proprio vantaggio. Ma in Pavarotti permaneva un desiderio di mantenere almeno una parte di sé non soggetta alle trappole grandiose della fama, per restare fedele a quel ragazzo italiano di provincia che trovava semplice conforto nel canto. “Ciò che era davvero sorprendente era vedere come cercasse sempre di portare con sé le sue origini ovunque andasse”, dice Nicholas Ferrall, uno dei produttori esecutivi di Pavarotti e presidente di White Horse Pictures. “Portava con sé in Cina la pasta e il formaggio. Viaggiava con pentole e padelle per cucinare in casa. Anche se era sempre in viaggio, era chiaro che desiderava vivere una vita semplice, anche quando la sua carriera era al top e la sua vita estremamente caotica”.
“Era sempre il figlio di paese del panettiere ed è rimasto fedele alla sua identità tutta la vita”, aggiunge Cassidy Hartmann, che ha collaborato alla sceneggiatura del film ed è uno dei soci di White Horse Pictures. “Per questo la gente entrava profondamente in connessione con lui – perché era così autentico. Spero che il pubblico uscirà dalla sala incoraggiato a essere fedele alla propria identità, dopo averlo visto arrivare a tale enorme successo perseguendo questo approccio”.
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IL FILANTROPO
Come chiunque raggiunga le vette più alte della celebrità mondiale, a volte Pavarotti aveva difficoltà ad accettare ciò che il suo essere famoso comportava. Ma è anche arrivato a vedere la sua celebrità come uno strumento per costruire qualcosa che andasse al di là di sé. Uno dei video più affascinanti del film è quello sull’incontro tra Pavarotti e la principessa Diana nel 1991, che si è rivelato uno spartiacque. Non solo sono rapidamente diventati amici, ma era anche chiaro che Pavarotti aveva visto in lei un modello di come la celebrità potesse diventare propulsore di azioni positive per il bene del mondo.
“La relazione di Luciano con la principessa Diana è stata cruciale e man mano che esaminavamo il materiale girato questo risultava del tutto chiaro. Era innamorato di lei, ma non in maniera passionale. Si trattava di un rapporto di ammirazione reciproca”, osserva Howard. “Credo che lei gli abbia insegnato che si poteva trarre un’enorme soddisfazione non solo nel sostenere le buone cause, ma anche nel lavorare davvero duramente a questo scopo, dedicandovi se stessi. Se l’è portato dietro per tutto il resto della vita”.
Quel desiderio di fare di più ha portato, nel 1992, alla serie di concerti di beneficienza di Pavarotti and Friends e ha fatto nascere l’amicizia con un’altra icona e filantropo di fama mondiale: Bono degli U2.
Tutto è cominciato quando Pavarotti ha iniziato a organizzare un concerto per i bambini della Bosnia al culmine della guerra in quella regione. Gli effetti della guerra e del terrore su giovani innocenti, che aveva sperimentato in prima persona da bambino mentre l’Europa era attraversata dalla Seconda Guerra Mondiale, era da tempo una delle cause a cui si dedicava con maggiore passione. Era determinato a riunire e coinvolgere più persone possibili in grado di fare la differenza. Come spiega la moglie, Nicoletta Mantovani, “Voleva dare ai bambini della Bosnia la speranza nel futuro, perché Luciano era uno di quei bambini”.
Nel film, Bono racconta come Pavarotti abbia iniziato a chiamarlo a casa a Dublino, adulando la sua governante e insistendo incessantemente perché Bono scrivesse una canzone per il concerto. “Luciano è un campione del braccio di ferro emotivo… e così, ovviamente, siamo finiti a Modena”, ricorda divertito Bono nel film, raccontando l’avvincente storia di come Pavarotti abbia finito per riuscire nel suo intento.
L’incontro che ne è derivato avrebbe sigillato un’altra amicizia che è durata fino alla fine dei suoi giorni, oltre ad aver portato alla scrittura dell’indimenticabile brano Miss Sarajevo, con la partecipazione straordinaria di Pavarotti.
“Bono amava moltissimo Pavarotti e risulta chiaro dall’intervista che ci ha concesso”, dice Howard. “L’intervista di Bono è stata un dono sia alla memoria di Luciano sia al nostro film, perché ha condiviso la sua intuizione profonda di quel nonsoché che Luciano è riuscito a portare nell’intera esperienza della sua vita e della sua musica, così come nella sua dedizione alle cause umanitarie, che Bono e Pavarotti condividevano”.
Pavarotti and Friends ha avuto così tanto successo che l’iniziativa ha continuato a prosperare per un decennio — raccogliendo milioni non solo a favore dei bosniaci, ma anche delle vittime di altre zone di conflitto, quali Guatemala, Kosovo, Beirut e Iraq. Nel 1998, Pavarotti è stato nominato Messaggero della Pace per le Nazioni Unite e nel 2001 è stato insignito del Nansen Refugee Award dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati per il suo impegno senza pari nella raccolta fondi e nel volontariato.
“Molti artisti mettono il loro nome accanto a organizzazioni umanitarie o portano avanti attività filantropiche, ma la maniera collaborativa in cui lo ha fatto Luciano e la dedizione che lo ha alimentato negli ultimi anni della sua carriera lo contraddistinguono da ogni altro”, dice Howard. “A volte era criticato per quei concerti, perché mescolava la musica pop al suo lavoro, ma ha raccolto moltissimo denaro e avuto un impatto innegabile”.
Proprio come era stato fino ad allora con la musica, anche l’attività umanitaria è diventata un prolungamento naturale del profondo amore per la vita di Pavarotti. La Mantovani spera che questo sia il messaggio principale che resterà impresso nel pubblico che vedrà il film di Howard al cinema in merito al lascito del marito. Sebbene il film mostri l’uomo tanto nel suo splendore quanto nelle sue ansie, nei momenti grandiosi come in quelli problematici, nel bel mezzo di gloriosi do di petto e in profonda difficoltà, la Mantovani apprezza moltissimo che in tutto il film se ne enfatizzi in primis la gioia.
“Luciano voleva trasmettere a tutti la positività”, dice. “Ha sempre mostrato che la vita va vissuta appieno in ogni minuto. Era un grande artista, ma credeva che il talento non fosse mai abbastanza. Era necessaria la disciplina. Era necessaria la devozione. Credeva che ogni suo concerto dovesse essere migliore del precedente. Credeva che il segreto della vita consistesse nel trarre piacere da ciò che si fa, ma anche sempre nel rendere quanto si è ricevuto. Ed è proprio quello che ha fatto”.