Gli otto capitoli di Ragazzi di vita, il primo romanzo scritto da Pier Paolo Pasolini nel 1955, si susseguono descrivendo un mondo fino ad allora escluso dalla letteratura, dalla politica, dalla società: i ragazzi del sottoproletariato urbano delle borgate romane; adolescenti “che la guerra fascista ha fatto crescere come selvaggi: analfabeti e delinquenti” che, per sfuggire al giudizio del mondo, scappano dalla famiglia e da ogni esistenza regolare, borghese.
La strada è il loro spazio e la loro scuola, vivono alla giornata sfidandosi a fare i tuffi nel Tevere “con gli slip appiccicati alla pelle”, organizzando piccoli furti, borseggiando signore sul tram.
Pasolini, nella sua predilezione artistica per l’adolescenza, indaga nelle borgate delle marchette, accendendo un faro sulla sessualità vissuta come smania sessuale, bestialmente compiuta, come fame di vita e mero espediente per procacciarsi qualche lira. Forte è pure il richiamo all’omosessualità, che ai tempi era davvero un tabù sociale e familiare inscalfibile, che evoca una prostituzione povera, inesperta, nascosta in cascine abbandonate o all’ombra dei ponti.
La trasposizione teatrale di Emanuele Trevi e la regia di Massimo Popolizio conferiscono al testo una lettura nuova, espressa in uno stile ironico e allegro, a tratti grottesco, in cui la musica diventa protagonista. Un racconto che oscilla dal disincantato realismo urbano ai picchi romantici del musical, facendo rivivere brani famosi cantati da Claudio Villa, tra il dopoguerra e i primi anni cinquanta, come “Zoccoletti” e “Serenata celeste”.
Le scene di Marco Rossi ruotano agevolmente attorno a questo folto gruppo di attori su un palcoscenico che diventa un suggestivo spazio scenico, quasi cinematografico, che ingloba lo spettatore fin dietro le quinte. Cornice ideale per accentuare la gestualità e la vitalità spavalda e spensierata dei 19 attori in scena, in grado di intrattenere gli spettatori con la forza dei loro assoli e del recitativo.
Punti di ritrovo preferiti di questi compagni di strada sono i fiumi – il Tevere e l’Aniene – “metafora del tempo che scorre come la vita, verso un’unica direzione. Queste vite hanno tutte un destino simile”.
E il finale tragico si consuma proprio nelle acque dell’Aniene dove il Riccetto, oramai integrato nella società, per evitare guai assiste impotente alla morte di Genesio, che annega mentre si trova in compagnia dei suoi fratelli minori.
È l’ultimo fotogramma di un racconto che riporta all’immagine di chiusura di “Mamma Roma”, un’inquadratura con cinque ritratti di persone inchiodate alla finestra. Davanti ai loro occhi la “distesa di Roma, palazzoni e prati fumiganti, si apre immensa e indifferente sotto il sole”. Nessuno parla, ma è come se dicessero “tutto è perduto”.