Approda a teatro Accabadora, con una coinvolgente Anna Della Rosa.
Il monologo, scaturito dalla penna di Carlotta Corradi, inverte la cadenza cronologica del racconto di Michela Murgia, premio Campiello 2010. Fulcro della vicenda sono le percezioni di Maria, tornata in Sardegna da Torino per assistere l’accabadora di Soreni che l’ha cresciuta come fill‘e anima.
Nel romanzo Maria a sei anni viene affidata dalla madre alla sarta Bonaria Urrai che all’occorrenza fa l’accabadora, cioè accelera la morte delle persone in fin di vita su richiesta dei familiari. La ragazza è profondamente amata dalla madre adottiva, ma fugge in continente quando scopre la verità, tornando soltanto per accudirla in punto di morte.
Inizia da qui la drammaturgia di Carlotta Corradi che sviscera le emozioni che Maria prova tornando in paese dalla donna che ha ammirato e le ha offerto un’infanzia felice. In un lungo flashback la giovane percorre la sua vita fino al momento presente. Bambina indesiderata dalla madre naturale, cresciuta con amore da Tzia Bonaria, scopre sentimenti e sensazioni come la consapevolezza del corpo e la fascinazione per il cognato al matrimonio della sorella.
La figura di Tzia Bonaria, perennemente vestita di nero per il lutto di un matrimonio non vissuto e la maternità non sperimentata, guida la sua crescita. Anche quando l’accompagnava a visitare moribondi di cui poco dopo veniva celebrato il funerale, credeva fossero visite pietose per portare conforto. Non riesce a sopportare, però, il dolore di Andrìa Bastìu per la perdita del fratello Nicola che, privo di una gamba, chiedeva di morire. La verità bussa alla mente, e fugge a Torino.
Adesso il cerchio si chiude. Tzia Bonaria ha bisogno di quell’aiuto che ha offerto ad altri più volte “tra l’amicizia e la compassione”. Una fill‘e anima può perdonare ed ereditare il ruolo?
Il conflitto tra i ricordi di bambina e la consapevolezza di donna lacera l’anima, che tenta di indagare il senso ancestrale del suo essere adulta.
L’acquisizione di questa coscienza crea l’attesa dell’epilogo, col concorso di tutta la messinscena di Veronica Cruciani, con la scene di Antonio Belardi e le proiezioni video di Lorenzo Letizia che contrappongono la Maria donna ai racconti di bambina, e lei man mano si spoglia del suo colorato vestito per indossare gli abiti neri e lo scialle di Tzia Bonaria (costumi di Anna Coluccia) celandosi tra le luci e le ombre di Gianni Staropoli e Raffaella Vitiello, in un tempo astratto cadenzato dalle musiche curate da John Cascone e i martellanti suoni di Hubert Westkemper.
Il pubblico sarà testimone e giudice delle profonde radici d’amore di Maria che è figlia, sorella, bambina, madre, accabadora nonostante avesse giurato a Tzia Bonaria che non ne sarebbe stata mai capace, sentendosi rispondere “Non dire mai: di quest’acqua io non ne bevo. Potresti ritrovarti nella tinozza senza manco sapere come ci sei entrata”.
Anna Della Rosa vibra di tensione affrontando l’evoluzione fisica ed emotiva di Maria, dalla rabbia rancorosa alla misericordiosa compassione.
Scrive la Cruciani nelle note di regia: “Da subito ho immaginato il dialogo tra Maria e Tzia Bonaria come un dialogo tra sé e una parte di sé, tra una figlia e il suo genitore interiore. Per questo ho voluto realizzare uno spazio astratto, mentale, nel quale Maria cerca di rielaborare la morte della madre adottiva. Ciò darà origine ad un conflitto tra due aspetti di Maria: la parte rimasta bambina e la parte che deve diventare adulta. Il video mi ha permesso di rendere visibile le dinamiche emotive e relazionali tra queste due parti. La pedana sospesa crea una divisione tra l’attrice e il pubblico, è la gabbia mentale in cui Maria è intrappolata e di cui riuscirà a liberarsi soltanto alla fine, compiendo il fatidico gesto richiesto dalla madre”.
Michela Murgia ha approvato la drammaturgia che indaga questo percorso interiore, sostenendo che Carlotta Corradi ha ampliato il suo racconto con il punto di vista di Maria adulta, e “non avendo scritto una parola, potrei controfirmarla, la sento molto mia, molto somigliante all’intenzione letteraria che c’era nel romanzo”.