C’è una stanza, nel Carcere di Volterra, tenuta sempre aperta da una rivoluzione quotidiana e concreta. Da più di 30 anni l’impegno incessante di Armando Punzo è costruire, attraverso il teatro, una comunità con al centro l’uomo, indipendentemente dalle sue condizioni. «Si tratta di creare altra realtà, non semplicemente di riprodurla – afferma il drammaturgo, regista e attore – il nostro lavoro mira a trovare un sé diverso, non un personaggio oppure una messinscena. Il cambiamento è tangibile: quello di Volterra era uno dei peggiori istituti in Italia, ora è all’avanguardia per le attività interne e l’apertura all’esterno».
Tale cambiamento ha un nome: Compagnia della Fortezza. Un percorso di consapevolezza che ha permesso a tanti detenuti diventati attori di recuperare spazi di libertà, su e giù dal palcoscenico, e a tutti quanti di “restare umani”. «Umani che si proiettano in avanti, che cercano le qualità migliori dentro se stessi. A questo serve il teatro: come puoi farlo se non cercando il meglio dentro di te? Non sono un monaco, né un mistico – precisa – è molto laico ciò che intendo: non c’è alcuna entità superiore a cui delegare le responsabilità, il futuro, la vita».
Il mistero che ci sovrasta Punzo lo affronta ogni giorno salendo a Volterra la Rampa di Castello. «Per me è come un “calvario”: il carcere non è in pianura, non ci arrivi tranquillamente. In genere, al mattino mi porto dietro le idee del lavoro. A sera, quando vado via, cerco di dare una continuità interiore a ciò che è accaduto. Non ci sono un inizio e una fine, anche se io fisicamente devo lasciare il carcere».
Abitare quella soglia equivale a confermare la volontà e l’umiltà di guardare in faccia i problemi reali. «Mi piace avere la realtà vicina, per combatterla meglio. Fuori di qui pensi di essere libero, ma non ti accorgi delle mura che hai intorno. Invece, nel carcere le vedi eccome. Tutti i giorni – confessa – sono assediato da un mondo terribile: la questione è non esserne divorato e ritagliare momenti in cui sognare altre possibilità».
Il sogno, per Armando Punzo, non è, ad esempio, il desiderio di libertà dei detenuti. Piuttosto, è una delle forme che assume quella pratica di creazione di altra realtà di cui parlava prima. Una sperimentazione che ha codificato, nel tempo, un metodo originale. «Bisogna scoprire possibilità di modi di essere diversi. In tanti si accapigliano per essere il più attuali possibile. Tuttavia, non si tratta di prendere una favoletta, metterla in scena e condividere un tema qualsiasi preso dalla televisione: il tema sei tu, tu come essere umano devi essere messo in crisi. È importante, necessario, vitale».
La nostra umanità, dunque, non è l’approdo, è un passaggio. Il nostro orizzonte è oltrepassare l’Homo Sapiens e incontrare l’Homo Felix, accogliendo quelle qualità che abbiamo relegato dietro le sbarre di ogni giorno: Armonia, Letizia, Stupore, Innocenza. Sono le Naturae (questo il titolo dell’ultimo studio della Compagnia della Fortezza) di un’evoluzione che non è ancora finita. «A detta dei suoi massimi studiosi, Dante per la Divina Commedia ha provato a partire dal Paradiso. La tentazione è negare l’Inferno che siamo. Evidentemente – ragiona Armando Punzo – non è così semplice: se vuoi essere onesto, devi fare i conti con chi sei. Però, non può essere la scusa per fermarti: la proiezione in avanti è fondamentale. E non si può fare in solitaria. A me il teatro interessa per questo, perché si fa insieme».
Da solo, invero, non ha scritto nemmeno la sua autobiografia. Un’idea più grande di me (Luca Sossella Editore, 2019) è un dialogo serrato e fortemente voluto con Rossella Menna, con cui Punzo si confronta dal 2012. Otto anni di incontri e due di scrittura, per inseguire il passo di una vita nell’arte. «Non mi piaceva l’idea di mettermi a tavolino e raccontare le mie memorie. Volevo un confronto e allora ho proposto di usare la forma della conversazione, che non è affatto un’intervista. Rossella negli anni è diventata la massima esperta della mia poetica artistica. È una persona in cui ho riconosciuto una sensibilità e uno sguardo affini ai miei, cosa che è davvero molto difficile da trovare».
Nel frattempo, Menna ha intrecciato mesi, anni complessi, “proprio mentre in me si faceva irrimandabile la resa dei conti con quel senso di angoscia, insoddisfazione e infelicità che attanaglia buona parte della mia generazione”. «Uno dei temi è appunto il raffronto tra generazioni diverse e lontane. Rossella appartiene all’oggi, dove sembra che il mondo non prospetti nulla, che non ci sia nessuna opportunità, che tu debba soltanto provare a salvarti. Abbiamo scelto le parole una a una – spiega – abbiamo selezionato gli aspetti concreti, i singoli fatti, per trasferire la mia pratica, il mio piccolo o grande sapere, per far capire bene che una possibilità c’è».
La giovane scrittrice e studiosa l’ha stuzzicato, messo in difficoltà e poi stanato a tal punto da restituirgli la grandezza di quell’idea che ha guidato e guida la sua intera esistenza. Un’idea più grande di me gli ha riconsegnato il senso complessivo, l’opera nel suo insieme. «Potevo rendermi conto di non avere grandi cose da dire per dimostrare nella pratica che questo mio “edificio” sta in piedi. Immagina – riflette Punzo – se dallo scambio con Rossella fosse emerso un grande vuoto, una mancanza di direzione, se avessimo scoperto, alla fine, che era tutto una bufala. Non è successo: grazie al libro ho capito che sono stato 31 anni in quella stanza con una logica compiuta. Inoltre – continua – ho compreso che mi sento ancora agli inizi. La mia chiara sensazione è che ciò che abbiamo fatto è veramente la base per fare cose molto più straordinarie».
In questa visione prospettica rientra il progetto del Teatro Stabile in Carcere. «Ci sto lavorando da 15, 20 anni. Questi sono i tempi normali all’interno di un penitenziario. La mia richiesta non è quella dell’artista riconosciuto che vuole una casetta per passare la pensione: è il tentativo – chiarisce – di avere un luogo che dia alla Compagnia più occasioni, per esempio da un punto di vista lavorativo, che permetta ai detenuti-attori di formarsi ai mestieri del teatro in maniera ancora più puntuale, precisa, profonda di ora».
Il DAP, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, aveva stanziato un milione di euro per un sala da 200 posti dove poter programmare gli spettacoli della Fortezza, ospitare i lavori di altri, economie, queste, che significherebbero un sostegno aggiuntivo, ulteriore. Senza l’intervento di Franco Corleone, il Garante dei diritti dei detenuti della Regione Toscana, quei soldi sarebbero andati persi per scadenza dei termini. «È un dato di fatto, perfino nella felice Toscana: il carcere, per alcuni, deve restare carcere. Noi non rubiamo niente a nessuno, anzi, il Teatro Stabile fare parte della logica di una comunità migliore. Ma ci sono persone che assolutamente non ci credono e, avendone l’opportunità, frenano, pure stando fermi, in silenzio».
Un silenzio rotto, con Corleone, da altri esponenti come Monica Barni, l’Assessora regionale alla cultura oppure Dario Danti, l’Assessore alle culture del Comune di Volterra. Così, finalmente si è avviata la strada delle analisi di fattibilità. «A Volterra l’amministrazione passata – accusa Armando Punzo – ha fatto una guerra senza pietà alla nostro teatro carcere. Il primo che doveva chiedere conto del milione di euro doveva essere proprio l’ex Sindaco, che, invece, si è guardato bene dal dire una parola. Facciamo una fatica talmente inaudita che nessuno potrebbe dire nulla se smettessimo, sarebbe più che comprensibile. Ciononostante – ammette – dopo le cadute, le stanchezze, gli sfinimenti, mi ritrovo sempre lì a insistere e ripartire in quarta».
La sua determinazione è forte. È come l’idea a cui si è dato anima e corpo: più grande di lui. «Sono fortunato – conclude Punzo – non sono solo, tante persone si spendono per questa esperienza, dai collaboratori storici della Compagnia della Fortezza agli stagisti. È una ricchezza incredibile: senza tutti loro non potrei fare niente».