Massimo Popolizio realizza il progetto di portare in scena il best seller di John Steinbeck sulla drammatica condizione dei lavoratori agricoli dell’Oklahoma tra la grande crisi del 1929 e Pearl Harbor, in una lettura scenica che cattura l’emotività e appare come il riflesso delle peregrinazioni dei migranti contemporanei.
Accompagnata dalle musiche di Giovanni Lo Cascio che accentuano il pathos di alcuni passaggi, la voce vigorosa e duttile dell’attore, assecondando la plastica scrittura dell’autore americano, ci restituisce immagini tangibili della terra riarsa, del grano dorato, dei bambini biondi come le spighe, delle casupole abbattute dalle ruspe, della disperazione degli agricoltori, e perfino dell’odore della polvere che offusca l’aria e rende tutto uniforme.
Scritto nel 1939 come reportage giornalistico per il “San Francisco News” con il titolo ispirato a una citazione biblica “The Grapes of Wrath” (I frutti dell’ira) e corredato dalle immagini di Dorothea Lange, il romanzo, che subì feroci critiche politiche perché metteva in evidenza il conflitto tra lavoratori agricoli e proprietari terrieri, ottenne nel 1940 il Premio Pulitzer e John Ford ne trasse il film candidato a 7 Oscar.
La voce di Popolizio si spande catturando tutti i sensi, facendo percepire l’ondeggiare delle spighe, gustare il sapore aspro della polvere, udire lo stridio dei trattori e la morsa stritolatrice della banca che fa abbattere le case e perfino il lento incedere della tartaruga che viene sbalzata dal viottolo e annaspa in aria con le zampette in cerca di un nuovo equilibrio.
È un’onda di potenza descrittiva e di vigore comunicativo, suggellata dalle immagini d’epoca proiettate sul fondale.
Il Premio Nobel per la Letteratura racconta da testimone la fatica del lavoro, la disperazione dei contadini che non possono restituire i prestiti, l’impossibilità di una prospettiva.
Quando giunge qualche dépliant della California doviziosa di frutta e coltivazioni, i braccianti partono in lunghe carovane con donne, bambini e masserizie attraversando Texas, New Mexico e Arizona lungo la Route 66. Giunti alla loro terra promessa, sono ormai decimati dalle malattie e sfiniti dalla fame e svanisce anche il miraggio: fuggiti dalla siccità, vengono travolti dalle alluvioni. Le piogge devastanti travolgono le tendopoli e muoiono affogati, contornati dal marciume delle arance e delle viti.
Rabbia, disperazione, morte sono gli stigmi di una cronaca drammatica, racconto epico che esplode nel furore di derelitti che hanno vissuto un esodo biblico, sfruttati dal potere e dilaniati dalle intemperie e dalle malattie, che si condensa nel furore di Steinbeck che tutto ciò ha visto, e si sublima nel furore declamatorio di Popolizio la cui voce tuona e sussurra veicolando immagini, modulata con talento sapiente.
Di icastica solidarietà l’immagine finale di Rose che, non potendo allattare il bambino morto poco dopo la nascita in un fienile, offre il suo latte a un uomo denutrito che per giorni ha rinunciato al cibo per donarlo al giovane figlio.
Annota Emanuele Trevi che ha curato l’adattamento: “Tutto, nel suo lungo racconto, sembra prendere vita con i contorni più esatti e la forza d’urto di una verità pronunciata con esattezza e compassione. Più che a una riduzione, riteniamo che un progetto drammaturgico su Furore debba tendere a esaltare le infinite risorse poetiche del metodo narrativo di Steinbeck, rendendole ancora più evidenti ed efficaci che durante la lettura”.
Nel foyer del teatro l’esposizione fotografica di Dorothea Lange e Walker Evans racconta l’America della Depressione attraverso le immagini di grandi fotografi dell’epoca incaricati dal governo americano, provenienti dagli archivi della Biblioteca del Congresso.