Incontro Maximilian Nisi al Teatro la Contrada di Trieste dopo lo splendido successo dello spettacolo “Autunno di fuoco” di Eric Coble, regia di Marcello Cotugno, con la bravissima Milena Vukotic – in questi giorni sarà ad Artegna (UD) il 21, a Zoppola (PN) il 22 e a Lestizza (UD) il 23 novembre. Poiché i suoi soggiorni nella città giuliana sono frequenti, nasce l’idea dell’intervista e lui si rende immediatamente disponibile.
———
Qual è il tuo rapporto con Trieste?
Un rapporto d’amore. Trieste è un angolo di mondo che sento molto affine. È una città artistica, un luogo privilegiato in cui è possibile respirare cultura anche solo camminando per la strada. È una città letteraria che ci ha regalato scrittori potenti ed opere eterne. L’ho conosciuta presto, sulla carta, da ragazzino leggendo i libri di Joyce, di Svevo e le poesie di Umberto Saba. Poi un giorno l’ho visitata per caso e ho scoperto di conoscerla da sempre. Deserta, chiusa, aspra e un attimo dopo ampia, avvolgente, grandiosa. Il suo cielo azzurro è chiaro come gli occhi dei triestini. L’aria è fresca, capricciosa e il vento è denso e pieno di ogni cosa. È affascinante, aristocratica come Torino, la mia città, con i suoi caffè viennesi e quella ricchezza architettonica che la rendono unica nel mondo. La sua eleganza è dolce, armoniosa. E poi c’è il mare che rende quell’atmosfera lenta ed irreale quasi da fiaba.
Quando sei venuto a Trieste la prima volta, con quale teatro hai lavorato?
La mia prima scrittura teatrale fu triestina. Era il 1994, neo diplomato al Piccolo Teatro di Milano venni chiamato da Glauco Mauri per sostituire un attore nel ruolo di Ippolit Burdovskij, nella ripresa de “L’idiota” di Dostoevskij, adattato da Furio Bordon. Produzione Teatro Stabile di Trieste. Ho un bellissimo ricordo di quello spettacolo e di quegli anni. Ero giovane, pieno di sogni e di belle speranze; non potevo cominciare in modo più prestigioso e significativo.
Che rapporto hai con i due teatri stabili?
Buono. Di conoscenza, di lavoro e di stima profonda creata nel tempo. Trieste è una città con una fortissima tradizione teatrale, era impossibile, inserito in progetti diversi, non passarci come ospite tutti gli anni. Ci si tornava con regolarità ed era sempre una festa. Nel 1998 Calenda, in quel periodo direttore artistico del Rossetti, mi scelse per il ruolo di Christo, per recitare accanto a Piera Degli Esposti, Maria, ne “La rappresentazione della passione”, uno spettacolo meraviglioso portato in tournée per tre anni in Italia con grandissimo successo. Nel periodo di allestimento conobbi anche Il Teatro della Contrada, prima come spettatore e in seguito per una proposta di lavoro che per impegni pregressi a malincuore non potei accettare: “Le sorelle Materassi” di Palazzeschi, nel ruolo di Remo, accanto a Barzizza, Masiero e Reggio.
Due teatri stabili differenti sia di pubblico che di programmazione, ma uniti nello spirito e nelle modalità. Due teatri di persone che lavorano con serietà per la gente, che non mancano di seguirsi reciprocamente con anima quasi complice, integrandosi dove questo risulta necessario. Un modo sano ed utile di lavorare, insomma. Credo che a Trieste il teatro abbia ancora un profondo valore per le pubblico perché ha ancora un profondo valore in chi lo fa. È una città che a me di questi tempi fa ben sperare, una città che del tempo che fu ha conservato tutto ciò di cui oggi, come persone e come attori, abbiamo più bisogno.
Cosa significa oggi, per te, fare cultura?
Farla non sempre è possibile. Desiderare, anelare di farla è buona vita per me e conferma di una scelta fatta con entusiasmo e sacrificio trent’anni fa. L’intrattenimento va bene, ma non vorrei mai dover negare stimoli, pensieri, emozioni, poesia che della cultura sono l’anima. La cultura è bellezza rara ed è contagiosa, sa travolgere e deve poterlo fare. Vorrei sempre darle voce, esserne il mezzo per portare in quel piacere chi è lì con me.
Vista la tua carriera, si potrebbe dire di te che sei un attore arrivato?
No, non si può dire. Le mete cambiano. Noi cambiano. Il mondo cambia. Impossibile mettere punti. Sarà un peccato un giorno non poter più prender parte a questo immenso gioco.
Hai interpretato ruoli di santi e di Gesù Cristo, quanto il recitare quelle parti ti ha toccato? Quale il tuo rapporto con la spiritualità?
Un rapporto misterioso, quasi indecifrabile, in continuo divenire. Non ho mai identificato la spiritualità con la religione però. Penso che segua un percorso differente. È, sì, ricerca di libertà, di pienezza, di grazia, speranza realizzata, infinito amore, paura negata, ma è anche un lavoro costante, necessario per aprire l’anima spalancando gli occhi e il cuore, che va affrontato quotidianamente, ma mai da soli. È un’avventura splendida che è reale soltanto se viene condivisa e che ti rende uomo.
Qual è stato il tuo rapporto con Strehler e quanto quell’incontro ti ha formato?
Strehler è stato il mio maestro. A volte mi chiedo come sarebbe stata la mia vita se non lo avessi incontrato. Sicuramente più semplice. Da lui mi sono sentito capito e così mi sono lasciato andare. Ho amato il suo concetto di arte, più tangibile che astratto. Le sue scenografie-vive che rompevano gli spazi. Gli echi, le musiche lontane. I suoi costumi. I suoi attori in movimento. Tutto posto con cura sensibile, quasi religiosa, sullo stesso piano per raccontare profondamente e degnamente la storia di un autore. Ho apprezzato la sua continua ricerca d’empatia.
Cosa ha dato a voi allievi?
Ci ha insegnato a farci domande, per cercare risposte degne per la salvaguardia delle nostre libertà. Sono felice del riconoscimento, della stima e del ricordo che il mondo ancora oggi gli attribuisce. So che non amava essere chiamato maestro, ma devo dire che lo è stato, ed anche grande, perché lui non dava consigli, dava esempi. Quando passo da Trieste, Barcola e il cimitero Sant’Anna mi danno ancora oggi modo di ringraziarlo.
Il mondo dello spettacolo è un luogo in cui hai potuto incontrare persone che ti sono diventate amiche e che hai coltivato? Oppure è solo un mondo di squali come si dice?
Ho incontrato tante persone nel mio lavoro in questi anni, tante anime. Alcune più teatrali di altre, altre meno. Anime nere, anime bianche, anime prive di colore. Non squali, ma anime, diverse. Pochi amici, ma non troppi nemici. Il teatro è un luogo ormai quasi privo di confronto, di condivisione, di luce, un luogo in cui l’energia in qualche modo ristagna. Ma credo che il problema sia più ampio e che non riguardi solo l‘uomo di teatro, ma l’uomo in generale. Tuttavia non smetto di pensare che il teatro possa essere una delle poche occasioni rimaste di crescita, di conoscenza e di umanità.
È vero che il ruolo più importante è sempre quello che deve ancora arrivare?
Sì, in barba alle pendenze con i ruoli che lo hanno preceduto. Mi pongo sempre verso quello che sarà con spirito curioso e con mille aspettative. Nel lavoro sono in perenne ricerca di piaceri sconosciuti e di fughe sempre nuove. Nuovi amori. Passioni segrete. Inoltre i mezzi di un attore cambiano nel tempo, e quindi personaggi nuovi da affrontare in modo nuovo sono sempre i benvenuti. Questo aiuta anche a fare il punto su noi stessi. Comprendere dove siamo arrivati e cosa ci è accaduto dentro.
Mi ha sempre gratificato studiare un ruolo prima di proporlo. È la fase più creativa, più divertente. È un viaggio avventuroso, che, se fatto bene, ti fa uscire da te stesso e ti porta in luoghi a volte inaspettati. Una vacanza salutare.