di Franco Scaldati
regie ed interpretazione di Enzo Vetrano e Stefano Randisi
disegno luci di Maurizio Viani
costumi di Mela Dell’Erba
tecnico luci e audio: Antonio Rinaldi
produzione Diablogues / Compagnia Vetrano-Randisi
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È tutto buio. La sala è in penombra, si entra piano, quasi in punta di piedi.
Guardando verso il palco non si vede niente. È avvolto dal buio, è immerso nel mistero. Non trapela nulla della scenografia e tutto ciò rende magico il momento in cui si ha la fortuna di vivere. Qui e ora senza anticipazioni dell’attimo che segue come spesso avviene nella realtà, dove tutto, o molto, è già conosciuto “Ti conosco mascherina…” perché tutto, o molto, è dato per scontato e il banale della banalità è talmente insito nello sviluppo del processo che l’emozione dell’attesa diventa impalpabilmente solo ansia del risultato.
Incomincia lentamente a chiarirsi l’aria come un’alba che allontani le ombre della notte. Da un angolo della scena spuntano, come stelle vagabonde che cercano ancora la strada di casa, due figure informi nei loro costumi, cappotti larghi di alcune taglie in più, come il classico e perfetto abbigliamento da barboni. Si nasconde di tutto in quelle tasche e si conserva anche la dignità che a prima vista non si mostra. La saggezza e la curiosità, lo stupore e l’ovvietà si perdono nelle profondità del cappotto che avvolge, protegge e camaleonticamente trasforma la realtà nella visione della stessa.
Dolcissimo l’inizio, entrano tenendosi per mano, l’uno conduce, l’altro segue. Ognuno porta con l’altra mano una valigia di cartone. Cosa ci sarà dentro? Il bagaglio di una vita, i sogni e le speranze, le domande e le risposte, le albe e i tramonti, le illusioni e le delusioni, i luoghi comuni ed i pregiudizi, tutto l’insieme di pensieri e di parole che intrecciano la trama del racconto.
Enzo Vetrano e Stefano Randisi portano in scena uno dei testi più densi del drammaturgo palermitano Franco Scaldati. Frutto di una traduzione dal dialetto siciliano all’italiano con l’obiettivo di entrare in intimità con il grande pubblico, i due attori hanno compiuto un adattamento approvato dal grande drammaturgo scomparso nel 2013, a 70 anni nella sua Palermo, dove tutti lo chiamavano “Il Sarto” per i suoi inizi alla sartoria del Biondo.
A molti forse, purtroppo, il nome di Franco Scaldati non dirà molto, eppure questo straordinario regista, attore e drammaturgo, che nientedimeno Franco Quadri ha definito il Beckett siciliano aveva il dono del racconto . Le parole arrivano dritte in quei cuori che Vicé dice fatti di mollica, sognando strade fatte di legno, proprio come le assi del palcoscenico, dove Vetrano e Randisi giocano plautinamente sul tema del doppio, dello specchio, dell’altro, scambiandosi domande semplici eppure profondissime.
Tenerissimo il procedere in scena, lento e spigoloso, che comunica come un passo di danza lieve e fugace tutta l’abilità e la capacità di una farfalla che ancora non sa di esserlo.
Breve la vita della farfalla che in un continuo mutare cangia la sua stessa essenza pur rimanendo sempre nella sua identità profonda. Breve ed intenso lo spettacolo che ha magicamente catturato l’attenzione del pubblico emozionando con il ritmo, divenuto cantilena dei nomi dei due protagonisti.
“Totò? Vicé? “oppure “Vicé? Totò?” in una rassicurante domanda a cui non manca risposta- l’uno c’è sempre per l’altro e l’altro senza l’uno non ha motivo di esistere. Totò e Vicé sono legati da un’amicizia reciproca assoluta e vivono di frammenti di sogni che li fanno stare in bilico tra il mondo terreno e il cielo, in un tempo imprendibile tra passato e futuro, con la necessità di essere in due, per essere.
Sono in due. Due persone che diventano personaggi, leggeri e profondi, semplici e complicati, essenziali e contorti, vecchi e bambini, visionari e realistici, fantasmagorici, poliedrici, filosofici ed ammiccanti. Tutto e il contrario di tutto.
Il doppio che tende a fondersi nell’unità perfetta anche quando perfetta non è per la mancanza di un momento in cui l’altro scompare.
“È morto? Sono morto? “ si domandano in una nenia che culla la loro vita altalenante tra l’essere e il non essere ponendosi quesiti come bambini alla scoperta del mondo.
“Noi siamo unicamente un pensiero e non moriamo mai”.
In un magistrale gioco di ombre e lumini da cimitero del compianto “poeta della luce” come usavano chiamare Maurizio Viani, appaiono i due personaggi-clochard che sognano o si sognano a vicenda, senza sapere in fondo se sono loro i vivi o i morti del camposanto. Impossibile se non inutile spiegarne la trama, la bellezza del teatro di Scaldati sta negli assunti fulminanti dei suoi dialoghi quasi “metafisici”, ancor più straordinari se si pensa che non aveva neppure la licenza elementare.
Di questo straordinario, poetico e commovente spettacolo, Rodolfo di Giammarco ha scritto: «Il teatro, il vero teatro, il teatro che ti toglie il fiato con un nulla, il teatro che non distingue tra vivi e morti, il teatro che ti sfugge di mano e intanto però ti insegna il mistero dell’amore, il teatro che mette in scena due poveri cristi in una penombra di lumini e modeste luminarie e di fatto ti fa sentire l’insopportabile luce della felicità, il teatro che ti sembra logoro ed effimero e che al contrario ti riempie l’anima fino alla commozione più grata. Questo teatro l’abbiamo conosciuto come un miraggio in una notte in cui sono spuntati Enzo Vetrano e Stefano Randisi, valigia di cartone in pugno, a dire e ridire attorno a una panchina con disorientata bellezza le battute umanissime di Totò e Vicé…».
Bravi, gli attori! Sono riusciti a trasportare le menti degli spettatori ad altezze visionarie, ad allargare le pareti del teatro con onde vibrazionali, a rompere la barriera della quarta parete con le immagini della luna che scende nel mare nel magico momento del tramonto. Sono entrati personaggi e sono usciti persone dal limite della scena, lasciando i cappotti sulla panchina, illuminati dalle due lampadine. Cosa siamo? Perché siamo?
Noi siamo perché Qualcuno ha scritto di noi e ci saremo anche quando nessuno si ricorderà di noi.
Il pubblico ha applaudito a lungo chiamando a gran voce gli attori.