L’apatia e lo straniamento indolente che caratterizzano la tematica di Manlio Santanelli, emergono con virulenta potenza da questa sua prima opera teatrale del 1978.
L’uscita d’emergenza che i due protagonisti dicono di voler trovare ma non cercano è come l’attesa di Godot di Beckett: qualcosa che non si verifica ma che è funzionale al racconto. Racconto del vivere l’angosciosa solitudine, dell’impossibilità di esternare paure profonde, dell’affrontare la quotidiana precarietà e del ritrarsi di fronte al giudizio emarginante del mondo.
Bloccato da questa tagliola di condizionamenti sociali, l’individuo fragile si isola, recidendo i legami e rinnegando le pulsioni. La famiglia, il lavoro, l’arte, la religione aleggiano quali retorici fantasmi, ammennicoli di un remoto passato.
Cirillo e Pacebbene si sono rifugiati in un appartamento pericolante a seguito del bradisismo a Napoli, dopo la fuga di tutta la popolazione. Vivono in stato di precarietà crescente, ogni sussulto allarga le crepe e rimescola i brandelli dei ricordi facendo affiorare quelli sedimentati tra torpore e consapevolezza.
Così, man mano si raccontano, si affrontano e si accusano con un linguaggio che affonda nel napoletano stretto all’aumentare della concitazione.
Cirillo faceva il suggeritore teatrale e aveva una moglie di cui conserva un vestito di paillettes nella valigia di cartone sotto il letto, che il suo compagno scopre rovistando e crede sia la prova occultata dell’uxoricidio.
Pacebbene era il sacrestano della parrocchia ed esibisce retaggi della sua antica fede col rosario appeso al collo e immagini sacre al capezzale. Coll’aumentare delle scosse gli cresce l’esigenza di rivelare l’antica debolezza di scrutare le bambine per crearsi un’immagine del femminile. Desideri, ricordi, invettive si rincorrono senza soluzione di continuità in una foga dialettica che sfocia nell’incomprensibile, ma che è icasticamente significativa di un rigido tormento esistenziale, che l’antagonista Cirillo tenta di frenare con un eloquio più forbito e qualche dotta citazione.
Senza pubblico, senza parrocchiani, ciascuno è interlocutore dell’altro in un mosaico di vita sconnessa e ambigua, disperati e soli, smaniosi di una via di fuga e timorosi di varcare la soglia verso un mondo affacciato sull’abisso.
In quel tugurio circoscritto Pacebbene impasta farina per la pastiera facendo mulinare nugoli di farina e anatemi su un vuoto esistenziale pregno di parole ossessivamente ripetitive, drammatiche e comiche al contempo, avvolgendosi in una spirale che riporta al punto di partenza, per ricominciare illudendosi che tutto cambi solo spostando i miseri giacigli nella desolante scenografia di mura sbilenche e vetri rotti, dove la vita ristagna.
Felice Della Corte conferisce a Cirillo un’adeguata parvenza di dignità e solennità derivante dai trascorsi nel mondo della cultura teatrale. Roberto D’Alessandro rafforza la fisicità imponente e un po’ scomposta con un profluvio di eloquio che defluisce dall’italiano al napoletano fino a un forsennato e sarcastico grammelot, schivando la macchietta ma scolpendo a tutto tondo il carattere permaloso e suggestionabile di Pacebbene.
La regia di Claudio Boccaccini (che condivide con gli interpreti un lungo sodalizio artistico) amalgama le contrapposizioni (sociali, culturali, religiose, ambientali, fisiche) dei due personaggi, rendendoli gradualmente e reciprocamente dipendenti e indivisibili nonostante si disprezzino, inglobandoli nella scarna e desolante scenografia, riflesso di esistenze annichilite, impaludate in un tempo immobile e uguale da Pasqua a Natale. Un horror vacui riempito di attesa cui la parlata napoletana dà lo stigma dell’universalità.
Nel finale, Napul’è di Pino Daniele suggella l’ineluttabilità di un disagio individuale e collettivo.