Una camicia bianca, stropicciata dalla vita, quante innumerevoli esistenze può raccontarci? Quanto dolore e strazio? Quante visioni e racconti? Una camicia stropicciata su quanti corpi può esser messa? Su quante parole perse nel mare? Quali occhi potranno indossarla? Quali voci cantarla? Una camicia bianca come quella di un vestito battesimale, come quella indossata da chi muore… da solo… in mare. Una camicia bianca da cui inizia il viaggio, quello di un uomo, un attore di teatro a cui viene proposto un nodo, da sciogliere, da vivere all’altezza di una gola che si strozza facendosi assente per il non poter più dire ciò che le orecchie hanno udito ciò che gli occhi hanno visto, ciò che le braccia hanno lanciato via dal profondo mare fino ad una nave dall’altra parte dell’onda per salvare, per salvare bambini, per salvare padri, per salvare sorelle e fratelli che dall’altra parte del mondo hanno viaggiato fino a Lampedusa.
Davide Enia ci racconta la storia di un naufragio, quello personale all’interno di un’onda, quello esistenziale di migliaia di uomini e donne venute dal deserto libico la cui uguaglianza sta per stupro, violenze fisiche ed emotive, separazioni, traumi, lutti, strazianti urla, e addii e lacrime il cui sale ferisce la carne aperta macinata da settimane e mesi di cammino e navigazione e speranza senza sosta, uno schiaffo a mano aperta sull’inutile che sentiamo di poter fare: un post su Facebook? Una discussione all’ora dell’aperitivo? Una tematica sulla quale si è ferrati? Che cosa conta poi se c’è chi muore? lontano dalle nostre sicurezze, e dai nostri misurati affetti, che cosa conta?
Così entriamo nello sguardo di un uomo, e di suo padre, entriamo nei racconti di chi vive giorno dopo giorno la realtà degli sbarchi, e di quello che vuol dire misurarsi con la finitezza dell’essere umano, mentre una donna sbatte con tutti i suoi pugni il petto di uno sconosciuto per farlo vomitare, ed entriamo in contatto con l’oblio della disperazione, con la solitudine di chi nell’afflizione non ha nessuno a cui rivolgersi se non un Dio che sembra farsi impassibile di fronte alla morte così come alla vita; entriamo nella storia di un padre lanciatosi tra le onde del mare per non affrontare il dolore della possibile perdita del figlio, ma entriamo anche nell’esperienza di un soccorritore che senza se e senza ma si butta tra quelle stesse onde, con tutta la forza di cui questa carne umana è capace per acchiappare quel figlio che il padre pensava morto, e che invece ritorna a lui… vivo!
Davide Enia, regista e attore de L’abisso (in scena fino al 15 dicembre al Teatro India di Roma), riesce a condurci lì dove le foglie si fanno verdi e i raggi del Sole ricordi, le sue mani sono orchestre tessili nello snodo centrale dell’incontro, dell’istante in cui un’esistenza cambia radicalmente il proprio corso, e il fiume della coscienza si snoda su un altro letto ad acquisire parole che sono esperienze, parole che sono dolore, parole che sono amianto sul rosso battere del cuore. Vi è nel suo discorrere la verità di chi è stato segnato, la dolcezza di chi si rende conto di essere infinitamente piccolo senza la possibilità di trovare una risposta ad un’irrazionalità che non si sa comprendere; la sua bravura sta nella dignità, soprattutto nella dignità con cui ha saputo riportare tra quattro mura di un teatro qualcosa di molto più grande della singola storia di ognuno di noi.
Ottimo il ritmo sulla scena che non permette allo spettatore di volgersi altrove per quei 70 minuti, Giulio Barocchieri solennemente accompagna il susseguirsi delle immagini richiamate sul palco e riesce a donare un luogo a quelle emozionalità diffuse nei silenzi delle parole che con la sua musica si fanno presenza, stridore, ritmo sincopato e riservato dolore. La pazzia si affaccia nell’elettricità della chitarra, quella di chi sta uscendo fuori di testa per qualcosa verso cui non è minimamente pronto, e poi torna la calma, quella quiete dopo la tempesta, in un arpeggio a descrivere la cura e l’amore del piccolo guardiano del cimitero che per ogni morto culla un seme, un fiore, una pianta e una croce, da porre a protezione del loro riposo, un guardiano poi andato in pensione e sostituito da nessuno, lì presente a curarsi di coloro che morti senza un nome, senza una fotografia, senza un’identità a richiamo degli affetti, chiedono solo questo: un po’ di pace, un po’ di rispetto, un po’ di solenne silenzio.
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Credits
L’abisso
tratto da “Appunti per un naufragio“, Sellerio editore
uno spettacolo di e con Davide Enia
musiche composte ed eseguite da Giulio Barocchieri
produzione: Accademia Perduta Romagna Teatri; Teatro di Roma – Teatro Nazionale; Teatro Biondo di Palermo