Accovacciato sul letto in un ambiente lugubre e claustrofobico, Don Gesualdo tossisce e snocciola anatemi, nel solitario consuntivo di un’esistenza dedicata ad accumulare “roba” e ad ottenere un adeguato riconoscimento sociale.
Nessuna vibrazione d’amore, nessun rimpianto, nessun rimorso attraversano il suo orizzonte.
Quando le nere quinte scorrono e sul fondale si proietta l’interno affrescato di un palazzo nobiliare, inizia il flash back sulla vicenda umana di Gesualdo Motta, che ha accumulato un immenso patrimonio terriero lavorando e speculando, senza riguardo alcuno. Avvinghiato alla roba, anela a un matrimonio che gli offra un rango adeguato al suo censo. Con l’intervento della cinica baronessa Rubiera il cui figlio Ninì ha compromesso Bianca della nobile e decaduta famiglia Trao, e la mediazione del canonico Lupi per vincere l’ostilità dei fratelli, si addiviene alle nozze, di cui i nobili invitati snobbano il ricevimento. Sarà questo lo stigma della sua nuova condizione di marito e padre: isolamento e disprezzo.
Sempre più ricco, si aggiudica all’asta le terre comunali sbaragliando i concorrenti patrizi, e sempre più emarginato, “Mastro” d’origine e “Don” per matrimonio, invidiato e deriso dal basso ceto, considerato parvenu dai parenti acquisiti, tra la gelida freddezza della moglie e il disinteresse della figlia, Gesualdo ha solo l’amore rispettoso di Diodata, serva devota i cui figli non riconosciuti dal padre vivono miseramente.
La ricerca di un marito adeguato alla dote di Isabella lo spinge a scegliere il duca di Leyra, anziano e scialacquatore.
Tossendo convulsamente e imprecando al “sangue di Giuda”, elemento estraneo a ogni strato sociale, despota e buzzurro, morta di tisi la moglie e isolata nel dorato esilio di Palermo la figlia, in un rigurgito di coscienza vorrebbe donare qualcosa ai figli illegittimi, ma non riuscirà a compiere la buona azione: “il pesco non si innesta sull’ulivo”.
Enrico Guarneri imbriglia la sua innata verve comica verso le note drammatiche di una recitazione che riempie la scena. Le riflessioni, amare per sé e grottesche per gli altri, sono un distillato di sicilianità contadina, borbonica e feudale della società catanese di fine Ottocento, che introducono le tappe della sua vicenda umana. Mentre la scenografia muta con lo scorrimento dei pannelli e la proiezione delle immagini del palazzo o degli ariosi e soleggiati possedimenti, muta postura e intonazione vocale, vigorosa e sprezzante prima, roca e affannosa nell’antefatto e nel finale.
La messinscena di Guglielmo Ferro, figlio di Turi che lo interpretò nel 1967, enuclea la psicologia del protagonista, coniugando l’impianto scenico di Salvo Manciagli al contesto reale ed emotivo, sottolineato dalle musiche di Massimiliano Pace.
La rielaborazione drammaturgica, sfrondata e modernizzata di Micaela Miano, supporta la visione contemporanea e la tecnica di respiro europeo del regista.
Quinte tetre chiudono lo spazio del letto o l’ambiente in cui Don Gesualdo racconta e riflette sugli eventi, che si aprono per le proiezioni dei diversi contesti: la campagna assolata o illuminata dalla luna, l’incendio che devasta il palazzo baronale, la biblioteca del notaio, fino alla magnificenza della raffaellesca Madonna della Seggiola sul letto di morte di Bianca.
All’immanente presenza di Guarneri si affianca la rappresentazione corale degli altri magnifici interpreti, che vestono i costumi di Carmen Ragonese: l’altra figlia d’arte Francesca Ferro è la silenziosa e gelida Bianca, Ileana Rigano la baronessa Rubiera, Rosario Minardi il canonico, Alessandra Falci la serva Diodata, Pietro Barbaro e Giovanni Fontanarossa i fratelli Trao, Rosario Marco Amato è Ninì, Federica Breci è Isabella, Vincenzo Volo ed Elisa Franco il barone Zacco e donna Cirmena.