Dal romanzo di Vincenzo Cerami del 1976 all’omonimo film di Mario Monicelli presentato a Cannes l’anno dopo con uno straordinario Alberto Sordi, allo spettacolo teatrale adattato e diretto da Fabrizio Coniglio con Massimo Dapporto in scena da gennaio di quest’anno.
Un borghese piccolo piccolo è una storia tutta italiana, come si evince dall’inequivocabile locandina dello spettacolo in cui il viso in primo piano di Dapporto guarda con amore la tazzina di caffè sulla quale soffia prima di bere. Uno stereotipo? Forse, ma non per questo non azzeccato per descrivere la vicenda di Giovanni Vivaldi (Massimo Dapporto), contadino emigrato a Roma, emblema del selfmade-man che, avendo passato oltre trent’anni al Ministero fra le scartoffie, si appresta a “spalancare le porte” al figlio Mario (Matteo Francomano), unico orgoglio, unica fonte di felicità per lui e per la moglie Amalia (Susanna Marcomeni), frustrata casalinga che trascorre le giornate a lamentarsi del marito con il perenne sottofondo della televisione come unica compagnia. Per assicurare un posto al figlio Giovanni è pronto a umiliarsi, baciare ripetutamente le mani unte di prosciutto del caposezione dottor Spaziani (Roberto D’Alessandro) e addirittura entrare, con un’iniziazione tutta da ridere, nella Massoneria, che procurerà al figlio il famigerato testo dell’esame del concorso. Ma il destino, beffardo e sornione, è lì appostato e la morte di Mario, ucciso dal colpo di pistola di un rapinatore, cambierà le carte in tavola. Amalia passerà dalla fervente attività del focolare domestico ad uno stato vegetativo e Giovanni si prenderà cura di lei fino alla fine, «amministrandole l’esistenza». Unica, triste rivalsa la cruenta vendetta che l’impiegato attuerà sull’assassino del figlio (Federico Rubino), torturato e infine ucciso nella malmessa casetta di campagna dove si ritirerà, solo e disperato, dopo la morte della moglie e al raggiungimento dell’agognata, e tuttavia ormai inutile, pensione.
C’è molto più del romanzo di Cerami che non del film di Monicelli, in questa versione teatrale, partendo dalla caratterizzazione dei personaggi «chiusi in sé, con una zucca al posto della testa e un manico di scopa come spina dorsale», divisi tra i tre ambienti scenografici di Gaspare De Pascali che delineano i loro involucri fisici, le loro ancore di salvezza e di dannazione allo stesso tempo: la casa, l’ufficio e il casolare in campagna. Gli altri luoghi sono solo evocati, uno su tutti il cimitero dove Giovanni cerca il figlio tra le infinite bare accatastate in attesa di una sistemazione, scena culmine della straordinaria interpretazione di Massimo Dapporto che commuove e colpisce allo stomaco allo stesso tempo. Le musiche originali di Nicola Piovani addolciscono le sfortunate vicende dei protagonisti e ne accarezzano i destini, conferendo allo spettacolo una poesia assente sia nel film che nel romanzo.
Un borghese piccolo piccolo racconta una storia paradossalmente e apparentemente banalmente comune. Una storia che viene fuori dagli anni ’70, fra gente che crede la vita possa essere lineare ma che potrebbe benissimo essere estrapolata dalla società di oggi, perché forse non è mai cambiato niente anzi, forse oggi più che ieri si farebbero carte false per l’ambito (e utopico) posto fisso, visto ancor di più come il punto d’arrivo di un’intera vita, il fine ultimo e solo di una (vacua) esistenza. Ma la morte arriva imprevedibile a rimescolare tutto quello per cui si ha venduto l’anima al diavolo, i progetti, le speranze e le energie di chi giorno dopo giorno vive in funzione di qualcosa che non arriverà mai. Una storia struggente ancor di più perché le vite in gioco sono in realtà nient’altro che ombre, vive solo in quanto anelanti al benedetto benessere economico. Vivere/sopravvivere, uno dei dilemmi sul quale si sono interrogati le più grandi menti di tutti i tempi, ma come insegna Emily Jane Bronte «solo gli inquieti sanno com’è difficile sopravvivere alla tempesta e non poter vivere senza».