Oti-Officine del teatro italiano partecipa al giorno della memoria come può fare un teatro: mettendo in scena spettacoli che raccontino quel male, affinché la memoria rimanga vigile.
L’odio non nasce solo dall’ignoranza. Non erano ignoranti i nazisti, come oggi non sono ignoranti tutti quelli che emergono dall’anonimato per tacciare altri di diversità e poterli insultare, quando non annientare. Per questo, l’antidoto non sta nel moralismo, ma nella capacità di ascoltare l’altro ed entrare veramente in dialogo con lui, superando le barriere del pregiudizio. Capire l’altro attraverso la sua storia, e di qui capire noi stessi: questo ci permette di fare il teatro, questo è il suo compito.
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27 gennaio, ore 21
SALA UMBERTO
FILASTROCCHE DELLA NERA LUCE. CRONACHE DELLA SHOAH, di Giuseppe Manfridi, con Evelina Meghnagi, Lorenzo Macrì e Giuseppe Manfridi. Viola Produzioni
Come si può usare la filastrocca per raccontare il dramma della Shoah? La risposta è nelle parole di Claudio Giovanardi, nell’introduzione al libro, che rivela già nel lancinante ossimoro del titolo “la contraddizione che sta a premessa del racconto: la tragedia dell’Olocausto in forma di filastrocche. Ma come? Una materia così grave accomodata in una forma che si usa per le fiabe dei bambini? Esattamente. Di fronte agli abissi del male siamo tutti bambini e ci mettiamo in ascolto pieni di speranza e di paura”.
Quello di Manfridi non è il solito testo celebrativo, non è una storia da cui trarre un film, non è una testimonianza storica. Semplicemente un coro di voci sommesse, sussurranti, che si accendono come lucciole in una notte senza luna. Semplici filastrocche, di quelle che una volta si leggevano ai bambini che, da grandi, avrebbero a loro volta raccontato ai propri figli e nipoti. Questo, dalla notte dei tempi, il modo di tramandare il sapere, le storie di famiglia, le gesta di popoli ed eroi.
Cosa resterà della Shoah quando l’ultimo superstite avrà smesso di raccontare? Un capitolo in un libro di storia? Forse, a meno che non impariamo a raccontare questa, ed altre storie, a voce, come si faceva una volta, in quel modo antico che ci ha permesso di ricordare ciò che sui libri di storia ancora non c’era. O che non ci sarebbe mai stato. È un dono lasciato ai posteri. È l’opportunità di cantare, come una volta gli aedi, una storia che appartiene all’umanità. Non la tragedia di un popolo vittima di un altro, ma quella di una grande famiglia, composta da tanti colori, che parla tante lingue, che abita tante terre, e che soffre sempre nello stesso modo. Quella grande famiglia umana che assiste ancora oggi a stermini e distruzioni di massa e per la quale, troppo spesso, la storia non è maestra di vita.
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SPAZIO DIAMANTE
Il VENDITORE DI SIGARI, di Amos Kamil, con Gaetano Callegaro e Francesco Paolo Cosenza, regia di Alberto Oliva. Produzione Teatro Litta-Mtm
Berlino, 1947, ore sei e trenta. Nella Germania appena uscita dalla guerra, tutte le mattine alla stessa ora, due uomini si incontrano: un professore ebreo che vuole partire per fondare lo Stato di Israele e il proprietario di una tabaccheria, dall’aspetto tipicamente tedesco. Sono sopravvissuti alla tragedia che ha appena sconvolto e quasi annientato un popolo intero.
Si attaccano, si rinfacciano colpe reciproche e recriminano sui torti subiti, fino a scoprire dolorosamente quanto gli obblighi della Storia possano condizionare il modo di agire dei singoli individui, quando, completamente soli, devono affrontare il proprio destino. Si gioca una partita in cui è impossibile giudicare vincitori e vinti, perché vittime e carnefici camminano su un piano sempre in bilico.
Nascere tedesco nel 1920 significava essere condannato a diventare un carnefice. Nascere ebreo nello stesso anno era la condanna ad essere una vittima. In entrambi i casi, la ribellione a questo destino poteva costare molto cara. A quali compromessi un essere umano, da solo, è disposto a scendere quando si trova sull’orlo dell’abisso? Lo spettacolo, partendo dalla questione ebraica in un momento cruciale della sua evoluzione, parla a tutti, perché tutti prima o poi siamo chiamati a fare i conti con la nostra identità e a scegliere i tempi e i modi della nostra partecipazione sociale.