Giovannino Pattarizzuti-Gianfranco Jannuzzo inizia il suo viaggio esistenziale da un piccolo paese della Sicilia, dove la vita della comunità gravita intorno alla piazza delimitata dai pochi tavoli sotto l’insegna del bar Alba e da un’edicola sacra coronata di rami d’edera.
Saponara Marittima è così piccolo che tutti si conoscono, le famiglie sono molto numerose, composte da nonni, genitori e figli. Il nucleo familiare di Giovannino è composito, un clan di vecchi e bambini. Il nonno è incorporato alla sedia, la figura dominante è la nonna che pretende rispetto e attenzione imponendo ai dodici nipoti di pettinarle a treccia o acconciare a chignon i tre fili di capelli che ha in testa.
Mentre sul fondale scorrono immagini in bianco e nero con scorci antichi di case in pietra e strade acciottolate, e si intersecano immagini oleografiche di donne precocemente invecchiate avvolte nello scialle nero, Jannuzzo racconta aneddoti che rendono tangibili gli umori, gli odori, i colori e le atmosfere dei borghi siciliani degli anni ’60. Con tono lieve e comicità sorniona descrive, racconta, evoca quadretti familiari, piccole marachelle, giochi di ragazzi poveri ma felici.
Scorrendo questi piccoli eventi passano gli anni, Giovannino cresce e, quando il sindaco si accorge che il ragazzo esplora la propria sessualità incontrandosi con sua moglie, frena l’impulso atavico di lavare l’affronto con la lupara valutando che non può perdere i voti della numerosa famiglia del giovane che, però, è costretto a lasciare il paese.
Attraversato lo stretto, si imbatte in personaggi insoliti e stravaganti nel suo peregrinare risalendo la penisola, povero in canna e curioso del mondo. In questo itinerario Jannuzzo trova spunti per delineare caratterizzazioni e cadenze dialettali (calabrese, napoletano, romano, veneziano, milanese) con una vivacità istrionica che suscita risate e applausi.
Trascorsi anni e fatta fortuna, Giovannino ha nostalgia del paesello, orgoglioso delle sue origini. Ogni volta che qualcuno gli chiede “Siciliano, per caso?” sogna un’Italia sottosopra, con le Alpi al sud e la Sicilia al nord per capovolgere radicati stereotipi.
Eccolo allora sulla piazza e, posata a terra la valigia, gira lo sguardo intorno sentendosi di nuovo, finalmente, a casa constatando che non poteva che nascere siciliano. Solo quest’isola può essere la sua terra, terra di calura e cultura, attraversata da greci, cartaginesi, normanni, francesi, spagnoli. Un inno d’amore, suggestivo, accorato e intenso.
L’attore agrigentino porta in scena un monologo cucitogli addosso dagli autori Roberto d’Alessandro e Andrea Lolli, che scrivono nelle note di regia: “La maestria nel riuscire a parlare alla perfezione tutti i dialetti d’Italia …. è stato il nostro punto di partenza, l’idea che la sua regionalità, cioè l’essere Siciliano è del tutto casuale, cioè che sia un Siciliano per caso, ma potrebbe essere di qualsiasi altra regione. In realtà andando avanti nella scrittura che vede nascere il nostro personaggio in un paesino della Sicilia, in una famiglia disadattata, povera fino all’inverosimile, composta da dodici figli, padre, madre e annessi nonni, che lo vede poi partire per vicissitudini di natura amorosa, e che lo vede ancora peregrino per l’Italia, viaggiatore involontario, alle prese con realtà differenti dalla sua, c’è come una presa di coscienza che non poteva che nascere Siciliano”.