L’ambientazione della gabbia è particolarmente indicata per la dimensione chiusa e circoscritta di un palcoscenico, la cui natura votata allo sguardo di un pubblico indagatore trova un’immediata analogia con lo zoo-spettacolo; ma è soltanto apparenza, perché è noto il coinvolgimento del pubblico nell’immaginare luoghi e tempi che trascendono la limitatezza della scena.
Lo Zio Vanja della regista Kriszta Székely snatura appunto la naturale tendenza del palco di estendersi oltre i suoi limiti fisici: la scena è interamente racchiusa tra le quattro pareti di una stanza, tanto trasparenti per concedersi agli avidi acchiti degli spettatori quanto ermetiche per i tragici occupanti, i personaggi posti in cattività da Anton Čechov. Il testo, permeato del cinismo che Vanja (Paolo Pierobon) diffonde intorno a sé, assume le fattezze di una stilettata continua, andando a sbattersi direttamente in faccia allo spettatore, con metodico sadismo. (La cattività di Vanja e di Jelena/Lucrezia Guidone, Sonia/Beatrice Vecchione, Astrov/Ivan Alovisio, Serebrjakov/Ivano Marescotti, Maria Vassiljevna/Ariella Reggio, Teleghin/Franco Ravera e Marina/Federica Fabiani è del resto niente altro che la condizione contemporanea di una gabbia sociale).
Ogni accorgimento registico di Székely appare finalizzato ad enfatizzare la crudele loquacità del testo: le quinte ingigantite circondano e sovrastano l’impalcatura scenografica (Renátó Cseh); la voce degli attori storpiata da microfoni grezzi, il timbro cristallino e “teatrale” trasformato in suono metallico, inumano.
Defraudato del diritto a spaziare con lo sguardo oltre il limite della scena, lo spettatore ingabbiato è comunque pienamente coinvolto nel gioco teatrale: ancora una volta, parte del merito spetta esclusivamente all’autore, quel Čechov che ha descritto con imbarazzante precisione la psicologia sociale dei tipi umani a stretto contatto,
Molto si deve, in ogni caso, all’adattamento di Kriszta Székely e Ármin Szabó-Székely; alla cupa atmosfera visiva e sonora di Pasquale Mari e Claudio Tortorici; all’espressività degli interpreti che a fine mese approderanno al Teatro Katona József Színház di Budapest, seguiti dai personaggi rinchiusi in un carro bestiame. Ivi verrà allestito uno zoo del tutto analogo a quello che ha occupato il Teatro Carignano di Torino, per l’avvio del medesimo esperimento sociale: la rappresentazione di una realtà indesiderabile ed esasperata, il turbamento e il rigetto del pubblico, l’inevitabile riconoscersi come prigionieri di quella gabbia trasparente.
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Zio Vanja
di Anton Čechov
adattamento Kriszta Székely e Ármin Szabó-Székely
traduzione Tamara Török curata da Emanuele Aldrovandi
con Paolo Pierobon, Ivano Marescotti, Ariella Reggio, Ivan Alovisio, Federica Fabiani, Lucrezia Guidone, Franco Ravera, Beatrice Vecchione
regia Kriszta Székely
scene Renátó Cseh
costumi Dóra Pattantyus
luci Pasquale Mari
suono Claudio Tortorici
produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale