Il suono, della parola e della musica, instaura nel mondo ebraico il rapporto tra Dio e gli uomini.
E Moni Ovadia è il menestrello della cultura yiddish e della musica klezmer. Ebreo sefardita di formazione mitteleuropea, è un affabulatore carismatico che narra e canta un patrimonio letterario, religioso e musicale del mondo ebreo orientale indulgendo nell’umorismo arguto e nella bonomia irriverente del witz, la tipica autoironia ebraica.
Con il racconto ricostruisce l’identità di un popolo, enucleando aneddoti e personaggi biblici con la fascinazione dissacrante di chi narra la storia degli uomini, ancorché ispirata da Dio, con quell’umorismo anti-idolatrico che mette a fuoco le miserie umane per ridere di esse e non prendersi sul serio, e anche Dio ride, nish koshe (così così).
Protagonista dello spettacolo è ancora l’ebreo errante Simkha Rabinovich, che a 25 anni da Oylem Goylem torna sulla zattera con cinque musicanti per continuare a narrare la vita e la spiritualità del popolo di Dio, nello stesso teatro Vascello dell’esordio, mentre le proiezioni ancorano alle vicende narrate, “per indagarne la vertiginosa spiritualità con lo stile che ha permesso loro di farsi tramite di un racconto impossibile eppure necessario, rapsodico e trasfigurato, fatto di storie e canti, di storielle e musiche, di piccole letture e riflessioni alla ricerca di un divino presente e assente, redentore che chiede di essere redento nel cammino di donne, uomini e creature viventi verso un mondo di giustizia e di pace” scrive Ovadia.
Con occhio acuto e motto faceto stigmatizza l’erezione dei muri che creano nazionalismi ed esaltano le divisioni, perfino il venerato Muro del Pianto. L’abbattimento del muro di Berlino nel 1989 non ha dissuaso dall’erezione di nuovi, come la barriera di separazione israeliana in Cisgiordania. Il fil rouge “Essere stranieri in casa propria” è lo scheletro dello spettacolo di cui Ovadia, autore e regista, tesse la trama accostando testi biblici al pensiero di autori moderni come Freud, Lévinas, Eco, Zavattini, Rosenzweig intercalando storie e musica klezmer, considerazioni filosofiche e riferimenti contemporanei, riflessioni sul divino e sagaci barzellette sullo studio teologico e la sapienza dei rabbini che suggeriscono l’inutilità di una religione pedissequa perché “c’è un unico modo di credere in Dio, quello di dubitarne”. Modulando il timbro della voce e recitando con intonazione straniera i dialoghi dei personaggi ebrei delle barzellette, solleva dubbi esegetici come con la fetta di pane che cade dalla parte non imburrata.
L’ebreo errante, con la voce arrochita dal tempo, ripercorre le peregrinazioni del popolo eletto, in realtà una tribù di ladruncoli e delinquenti, attraverso l’esilio e l’alleanza con Dio smitizzando le figure dei profeti che erano persone con limiti e difetti anche fisici come la balbuzie di Mosè. La composizione eterogenea lo ha indotto a chiedere all’Altissimo un re, che non sempre è stato all’altezza del ruolo come Saul, buon soggetto da psicanalisi.
Aneddoti e paradossi punteggiano il perenne girovagare di un popolo in cerca di approdo. L’esilio è stato un’occasione di crescita culturale e spirituale che gli ha fatto assaporare il gusto della libertà allenandolo a una perenne peregrinazione che non lo fa sentire a casa propria in nessun luogo e cita il Levitico (25,23) “Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come stranieri e ospiti”.
Autentico mattatore, balla e canta concludendo con un canto arabo indossando la kefiah.
L’impianto scenico è la zattera su cui l’artista e la Moni Ovadia Stage Orchestra con
Maurizio Dehò, Luca Garlaschelli, Albert Florian Mihai, Paolo Rocca, Marian Serban salgono entrando in scena dalle quinte incedendo lentamente.