Per un incastro di epoche Manrico va al museo tra le armonie cromatiche dell’arte.
Per il 500° anniversario della morte di Raffaello Sanzio il regista Alvis Hermanis ambienta l’opera in una pinacoteca, che raccoglie i migliori quadri della pittura italiana del Rinascimento, Raffaello in primis.
I personaggi principali, vestiti da guide museali con la bacchetta in mano, si fermano davanti ai quadri e, anche se non c’entra niente, narrano ai visitatori in abiti moderni, in piedi o seduti su divanetti, interpretati dai coristi, la drammatica storia dei bimbi scambiati e le fosche vicende ad essa collegate. Il regista, autore anche della scenografia insieme a Uta Gruber-Ballehr, fa scorrere in varie direzioni dei pannelli con quadri per variare la scena, che comunque non definisce gli ambienti descritti da Cammarano, ma dà una nutrita panoramica della pittura rinascimentale. L’impatto visivo è piacevole, ma porta fuori strada. Lo sgomento cresce quando, con il principio del flashback, tutti i personaggi vengono ogni tanto catapultati nel XV secolo con magnifici purpurei costumi di velluto, di foggia rinascimentale, e copricapo simili a quello del Duca Federico da Montefeltro nel quadro di Piero della Francesca. Questo incastro di epoche, come nel famoso film di Benigni e Troisi del 1984 “Non ci resta che piangere”, pur nel rispetto delle convenzioni estetiche, non favorisce certo la comprensione della trama, oltremodo intricata e romanzesca, ma la musica di Verdi in questa sua opera della trilogia popolare è talmente bella e nota che quasi quasi si preferisce ascoltarla tra le armonie cromatiche dell’arte che nelle fosche tinte del dramma.
Le unità spaziali sono suggerite dalla disposizione delle masse e dei pannelli, dalla profondità del palcoscenico e dal disegno luci di Gleb Filshtinsky.
Spicca il contrasto cromatico fra l’abbigliamento contemporaneo e i costumi tradizionali, che invece si abbinano con l’ambiente colto e raffinato del museo. Comunque nulla risponde ai dettati del libretto.
Belle le scene a lungo campo col rosso dominante, colore che suggerisce l’idea del fuoco e del sangue, senza mostrare la pira che arde, né i guerrieri con armature.
Il trovatore ha uno spessore sia musicale che psicologico.
La musica scaturisce da un’inventiva melodica che si scioglie in un canto appassionato ed eroico, fino a scoppiare in ardite cabalette.
I personaggi delle opere liriche del periodo romantico sono giovani ed eroici, ma i compositori hanno scritto per loro pagine che richiedono una vocalità importante, per cui gli interpreti devono combinare credibilità scenica e grande voce.
Purtroppo non si sono rilevate eccellenze qui sul versante vocale.
Nel ruolo del Conte di Luna, giovane gentiluomo aragonese, il baritono Massimo Cavalletti esibisce un bel timbro vocale e una linea di canto morbida, canta bene, sul fiato e tiene a lungo i suoni acuti, ma quando li forza gli diventano un po’ ballerini (“Tace la notte” terzetto finale atto I) e anche il canto a voce piena non brilla per fermezza (Aria “Il balen del suo sorriso”).
Leonora, dama di compagnia della Principessa d’Aragona, è una prima donna con una vocalità ancora belcantistica, sulla scia della donizettiana Lucia. Il soprano Liudmyla Monastyrska, che qui impersona una guardiana o una guida del museo, ha la melodia nel canto, ma nel notturno del prim’atto, la Cavatina “Tacea la notte placida”, presenta gravi flebili, medi ingolati, voce tremolante, acuti pieni; nella cabaletta con orchestra frizzante “Di tale amor” esibisce voce duttile, belle scale discendenti in tessitura acuta, gorgheggi pieni, ma suoni intubati in zona media; sfodera voce carismatica nella grand’aria del quart’atto “D’amor sull’ali rosee”.
Manrico, ufficiale del principe Urgel e presunto figlio di Azucena, è appannaggio del noto tenore Francesco Meli. Fin dal canto iniziale da fuori campo accompagnato dall’arpa, il tenore evidenzia un mezzo vocale esteso, di bel timbro, ma vacillante in tessitura acuta; Meli sa fraseggiare, ammorbidire con sensibili mezze voci e conosce la tecnica della messa di voce, ma spesso esprime la tinta eroica col canto di fibra e purtroppo il canto troppo teso e di forza gli gioca un brutto scherzo nella “pira”.
Azucena, zingara della Biscaglia, è anch’ella una guida museale che canta la Canzone “Stride la vampa” davanti ad un quadro con la bacchetta in mano di fronte a un gruppetto di visitatori, forse trasecolati ma immobili. Il mezzosoprano Violeta Urmana, non credibile come personaggio perché nulla emerge teatralmente della sua visceralità e della sua tragica vita, ha voce densa e screziata, frecciate acute lancinanti, ma i suoni sono volte intubati e non sempre fermi, tuttavia l’interpretazione è intensa grazie ad una tecnica d’emissione consolidata e all’esperienza della cantante.
Anche Ferrando, capitano degli armati del conte di Luna, è una guida museale che narra la storia dell’abbietta zingara. Nel ruolo si cala propriamente Riccardo Fassi, il giovane basso dotato di bella voce ampia e timbrata, ascoltato la scorsa estate al R.O.F., dove lo ritroveremo la prossima estate.
Ines, confidente di Leonora, è una guardiana, con la vocina di soprano di Noemi Muschetti, allieva dell’Accademia del Teatro alla Scala. Allievi sono anche il tenore Taras Prysiazniuk nel ruolo di Ruiz, soldato al seguito di Manrico e il basso Giorgi Lomiseli in quello di un vecchio zingaro. Il tenore Hun Kim è un messo.
I coristi, che dovrebbero rappresentare le compagne di Leonora, le religiose, i familiari del conte, gli uomini d’arme, gli zingari e le zingare, non hanno una definizione nitida, ma scenograficamente compongono dei suggestivi tableaux vivants (cantano “Vedi, le fosche notturne spoglie” seduti a terra riempiendo in modo armonico tutto lo spazio di un palcoscenico allungato) e vocalmente restituiscono un amalgama sonoro di alto pregio.
Il Coro del Teatro alla Scala, preparato dal M° Bruno Casoni, si esprime magnificamente, con pienezza del suono nel canto vigoroso, delicatezza in quello morbido, nelle mezzevoci e nei suoni sommessi del Miserere, precisione tecnica nel canto sillabato e ritmato.
L’Orchestra del Teatro alla Scala, diretta dal M° Nicola Luisotti, si mantiene per lo più morbida e sensibile, frizzante nelle cabalette, piangente nel dramma, lacerante nelle rimembranze, ma a volte i suoni sono gonfiati e il volume cresce con la tensione del canto.
E allora si avverte una certa competizione tra il canto e l’orchestra quando gli animi sono infuocati, come nel terzetto d’amore e gelosia, Conte-Manrico-Leonora, nel finale dell’atto primo, e nel duetto Manrico-Azucena, nei quali l’orchestra è inizialmente duttile e discreta per lasciar libero sfogo alle voci, ma poi passa a forti sonorità col crescer della tensione e le voci si lanciano in un canto tirato e di forza.
La recensione si riferisce alla recita del 15 febbraio 2020.