Il 3 febbraio 2020 al Teatro Gobetti di Torino una serata condotta da Giulio Graglia, in presenza di Vittoria Poggio, Assessore alla Cultura della Regione Piemonte, Lamberto Vallarino Gancia, Presidente del Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, anticipa l’impegno del Teatro Stabile di rendere omaggio a un letterato di cui si è quasi persa la memoria. Il ruolo del teatro come medium per la diffusione di una cultura risorgimentale nell’Italia unita prende Vittorio Bersezio come esempio piemontese di una certa resilienza della tradizione dialettale, protesa comunque all’intento di Unità Nazionale: al pari ovvero degli illustri colleghi che da tutto il Paese hanno contribuito alla costituzione della Lingua Italiana, dell’Italia e degli Italiani.
Cesare Chiesa, della Fondazione Vittorio Bersezio, presenta il personaggio storico illustrandone le molte anime che ne fanno una sorta di «Garibaldi della cultura»: commediografo, traduttore, romanziere, giornalista e saggista, Bersezio arricchisce la sua produzione artistica con una riflessione sulle trasformazioni sociali dell’Italia post-unitaria, gettando sguardi curiosi al proletariato e alla piccola borghesia dei suoi tempi.
È in effetti un uomo teso tra la vocazione artistica e l’impegno politico, pur avendo rifiutato l’invito di Cavour a impegnarsi nel Ministero è promotore e fondatore del giornale politico Espero e direttore del giornale satirico Fischietto; sarà quindi direttore della sezione letteraria della Gazzetta Ufficiale del Regno e fondatore della Gazzetta Piemontese (l’antesignana de La Stampa). Alacre commediografo e scrittore, entra effettivamente in politica per concretizzare la sua attenzione per i conflitti di classe della Torino industrializzata.
Come ricorda Alessandra Comazzi de La Stampa, fu proprio Bersezio a battersi per il riconoscimento delle tutele al lavoro giornalistico, ritenendole fondamentali per garantire la libertà di stampa: ma la sua attenzione per le classi sociali sarebbe presto sfociata nella produzione artistica, in particolare nei confronti del personaggio dell’impiegato che, come ricorda Enrico Mattioda (Università di Torino), è topos tipico della sua produzione teatrale, sconosciuto ai romanzi.
Le miserie d’ Monsù Travet, il capolavoro che ha conosciuto rivisitazioni tanto in teatro quanto al cinema e in televisione, è la storia di un impiegato pubblico illuso di ricoprire un posto sicuro e dignitoso, quasi un Fantozzi ante-litteram nell’incarnare il modello dell’impiegato-tipo di un periodo storico. Una commedia che da sola ha avuto il merito di attestare il dialetto piemontese come lingua scenica, a partire dal titolo e dal nome del protagonista: interpellata a riguardo, Albina Malerba del Centro Studi Piemontesi evidenzia come l’idea alla base del successo della commedia sia il significato stesso di Travet, il “travicello” che sostiene le tegole, l’impiegato come umile ma fondamentale travicello dell’edificio amministrativo.
Il riferimento a un Fantozzi si volatilizza, facendo del Travet quasi un eroe del suo tempo, o, per usare l’espressione di Bruno Quaranta (La Stampa) una «figura nobilissima, immagine del senso del dovere».
E alla domanda del giornalista a proposito di quando il Teatro Stabile di Torino riporterà il Travet in scena, il Direttore Artistico Valerio Binasco e il Direttore Filippo Fonsatti rispondono quasi direttamente: la serata del 3 febbraio sembra non esser stata fine a se stessa, e la riproposizione di un classico dimenticato è argomento di studio.