Nato a Firenze nel 1988, Giovanni Luca Valea vive a Prato e lavora in una scuola secondaria di primo grado, dove insegna Lettere, materia nella quale si è laureato nel 2013. Appassionato di musica e poesia, ha pubblicato due raccolte in versi prima di dedicarsi alla stesura di testi musicali. Osanna è la sua prima canzone prodotta da una casa discografica, la Ghiro Records.
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Dalla poesia alla musica. Raccontaci il tuo percorso
Ho iniziato a scrivere poesie quando ero un ragazzino, poi ho smesso perché mi sembrava una cosa ridicola – e in qualche modo mi sembra tutt’ora. Quando però ho visto che a qualcuno potevano piacere, mi sono chiesto: perché non proseguire? E sono arrivate due pubblicazioni con due case editrici indipendenti: una con Carmignani, l’altra con Porto Seguro, entrambi libri di poesia. Il primo lo disconosco completamente, mentre al secondo sono molto legato; si intitola Una storia che credevo di aver dimenticato e ha avuto anche un buon riscontro di pubblico. Piano piano mi sono accorto che in realtà, oltre a scrivere poesie, mi sarebbe piaciuto cantarle. Il passaggio dalla poesia alla musica però è veramente difficoltoso: servono degli accordi, una scansione e una prospettiva metrica completamente diversa. Soprattutto serve qualcosa che io odio particolarmente, i ritornelli. Mi piacerebbe fare canzoni di 8 minuti senza ritornelli, ma è altamente improbabile adesso. Il ritornello deve arrivare entro 40 secondi e questo per me è stato un trauma. Ho dovuto scendere a compromessi, il che è normale, tragico ma normale.
E poi è arrivato il contratto con la casa discografica Ghiro Records per Osanna.
Osanna parla di una religione laica. È l’amore la divinità? Forse un amore specifico?
Sì, è un amore specifico. Era da 4 o 5 anni che inseguivo l’idea di una canzone che potesse mescolare l’aspetto ateo e carnale del mondo con la spiritualità. Il testo nasce in due ore di lavoro, due ore belle intense, dietro alle quali c’erano anni di desiderio di scrivere una canzone così. Sono riuscito a scrivere Osanna in un pomeriggio e ho ritrovato tutto quello che avrei voluto dire, scritto nella maniera più vicina alle mie intenzioni. Non la ritengo bella o brutta: adesso mi piace, ma ho passato fasi di odio mentre la arrangiavamo, quando ogni giorno dovevo sentirla venti volte; poi è tornato un amore viscerale. È una canzone scrigno.
In che senso?
C’è tanto erotismo: nella quarta strofa dice “un tempo sono stato tra gli eletti, entravo fiero in uno scrigno come in un regno…” e dà proprio l’idea dell’erotismo anche più becero se vogliamo, della fierezza di conquistare una donna e di godere del suo corpo. Nella stessa strofa la canzone si smarca dalla religione: “…e se dio non lo conosco so soltanto questo canto mentre rinasco”. La voce introduttiva, che è quella di mia madre, dice “è la storia di un uomo innamorato che vide entrare in città un maestro”, ma non è un saluto religioso. È sicuramente una canzone d’amore, sullo sfondo di un mondo che sta cambiando. La considero una canzone scrigno non come pregio, ma come condizione. Ognuno può prendere da Osanna quello che vuole: l’aspetto religioso, amoroso, erotico. Quando, nella seconda parte del ritornello, non ripeto “Osanna Signore”, ma cambio con “che meraviglia Signore” è lo stupore dell’uomo, davanti al suo maestro, per la bellezza della donna. È stato un amico a farmi notare che dovevo focalizzare l’attenzione sulla donna, perché è per una donna che l’ho scritta. C’è una figura spirituale che sta entrando in città, ma è marginale.
“Osanna” è il saluto che accoglieva Gesù a Gerusalemme, come una preghiera: “salvaci”
Sì, salvaci dall’amore, dalle difficoltà dell’amore. Io e la ragazza della canzone siamo molto diversi. È una relazione che ho vissuto. “Conosci la storia della famosa venuta, nella terra, nella notte sperduta. Non fai attenzione alla luce e non ti chiederò perché”. Inizia in modo ambiguo, con un incipit che ha un doppio significato, palesemente erotico e spirituale: il contatto carnale da cui nasce qualcosa e l’arrivo del maestro. C’è differenza tra lei che non fa attenzione alla luce, non si preoccupa di questo arrivo e io che invece scrivo.
Il maestro non ha accezione religiosa. Perché non un profeta?
Volevo giocare proprio sul fatto che il maestro potesse essere Gesù, ma potesse anche non esserlo. L’intenzione è di mettere un ritornello popolare, che resta impresso ed evoca la religione, in una canzone che parla chiaramente di tutt’altro. È piena di riferimenti biblici, non lo nascondo: “sei senza una voce, io ho un solo talento…” si rifà alla parabola dei talenti. Quando dice “…non credo sfiorirà, è figlio del vento…” ma poi è proprio il maestro a innalzare la musica verso una forma di poesia. E forse questo è un mio atto di vanità: che possa essere poesia quello che scrivo.
Nelle tue canzoni ci sono alcuni personaggi che sembrano rifarsi un po’ ai tipi fissi della Commedia dell’Arte: lo schiavo, il maestro, il vecchio
Mi affido molto a certi personaggi e anche a persone che conosco o che incontro, a ciò che mi suggerisce anche il suono del loro nome. I tipi fissi funzionano moltissimo nelle canzoni perché sono figure che continuano a darci qualcosa, ci dimostrano che il loro ruolo non è finito, come i poemi classici.
La conclusione “canto soltanto per un po’ di calore” racchiude una tenerezza che sembra contraddire l’erotismo del testo
Nasce dalla sensazione di solitudine. Quando dice “e vada verso la tenebra, vada verso la luce” si riferisce all’amore che vive il protagonista: che si perda nel buio, o che invece venga illuminato dalla luce, “so che esiste una croce, un amore”, cioè una forma diversa d’amore, ma anche un altro amore, comunque vada questa relazione. Canto soltanto per sentirmi circondato da amore.
Cos’altro c’è nella canzone?
Sono particolarmente attaccato alla terza strofa, che dice “sono appena uno zingaro con le stelle negli occhi, ho qualcosa di raro e riconosco i tuoi trucchi”. Non l’ho scritta io in realtà, o meglio ho rielaborato in forma di poesia le cose che mi sono sentito dire nel corso degli anni, e ci ho aggiunto “riconosco i tuoi trucchi”, che è rivolto alla donna, come a dire: non cercare di imbrogliarmi. È la mia immagine riflessa negli occhi degli altri, delle persone che ho incontrato.
La canzone sta andando bene. Hai altri progetti?
Sono in cantiere almeno altri due singoli, entrambi ritratti di donne che ho conosciuto.
E poi lavoro da tempo a un progetto musicale sui lirici greci tradotti da Quasimodo: ho avuto l’idea di prendere sette stadi emotivi della vita dell’uomo e di metterli in musica ispirandomi ai lirici. Per ora ho scritto su amore, passione e odio. Lessi i lirici greci per la prima volta alle medie e non ci capii nulla, ma compresi che erano troppo belli. Ogni tanto andavo in biblioteca e li leggevo. Quando mi sono sentito pronto ho comprato il libro. Penso di non aver mai pianto tanto – forse sul finale dei fratelli Karamazov, ma su quelli chi non piange è un animale…
Spesso i cantanti dicono che le parole semplicemente arrivano, senza tanta elaborazione. Anche per te è così?
Sì, ed è bellissimo. Questa canzone è nata perché un ragazzo che io conosco marginalmente, credente, mi ha detto che avrebbe pregato per me. Io sono abbastanza lontano da questo mondo, nel senso che ho una fede fatta di dubbi, come la maggior parte delle fedi dovrebbe essere fatta. Sono tornato a casa e ho scritto Osanna. È partita da una dimensione assolutamente spirituale, per evolvere in ciò che io stavo vivendo in quel momento: l’idea di una nostalgia, di qualcosa che mi sembrava di essere sul punto di perdere. È un dono, una preghiera, ma anche una presa di distanza da una donna che non vede la luce che vedo io.
Parlo di dono perché non credo molto nell’ispirazione, anche se il più grande di tutti, Léo Ferré, diceva che lui si alzava la mattina e andava a scrivere.
Nelle tue canzoni si sente che hai ascoltato molto cantautori. Chi ti ha influenzato di più?
Sicuramente Léo Ferré, cantautore francese anarchico degli anni ‘70. Una delle sue canzoni più belle è Avec le temps, Col tempo. Louis Aragon scrisse di lui: “Dovremmo riscrivere la storia della letteratura francese dopo Léo Ferré”.
E tra gli italiani?
Guccini, che secondo me è l’unico cantautore inimitabile della nostra musica. Ha una sua etica e un suo stile ben preciso ed è originale.
Com’è stato ascoltare la tua voce, dopo l’esperienza di scrittore?
Fin quando scrivi in un certo senso sei protetto, perché chi legge non ti vede. Ora che c’è anche un video con la mia faccia è strano, anche perché io non ho nessuna voglia di apparire, non mi piace esibirmi in pubblico, per una forma di timidezza atavica. Che la gente sappia che io ho scritto una canzone per me è solo fonte di imbarazzo. La cosa più facile, invece, quando scrivi una canzone è che hai più vie d’uscita: hai la musica, le parole e la melodia. Possono essere brutte due ma ti salva una. Nella scrittura invece sei inchiodato.
Scrivi per dare sfogo a qualcosa che hai dentro o pensi che le tue parole possano servire a qualcuno?
Sì, penso che qualcuno possa ritrovarcisi. Una sorta di catarsi. Il messaggio finale è quello: si può parlare di sesso, religione, amore, però l’intenzione primordiale è la ricerca di calore. L’idea che per quanto ci fingiamo machi o grandi donne alla fine cerchiamo solo qualcuno che ci ami per quello che siamo.
Come sta la musica?
Male, perché stiamo male noi. Abbiamo meno disponibilità all’ascolto, vogliamo cose semplici – io per primo. Sarebbe utile ogni tanto pensare, fare fatica, non dico una ricerca filologica, però andare a vedere cosa significa un testo, ascoltarlo davvero e non limitarsi a sentirlo. In un momento in cui non riuscivo a scrivere, ho tradotto l’opera omnia di Leo Ferrè, più di 300 poesie. Volevo fare lo sforzo di pensare e capire.
Molti cantautori si sono dati al pop, ma non è quella la strada, secondo me.
E qual è?
Fare quello che si sa fare e vedere come va. Sono convinto che ci sarà un ritorno al cantautorato. La storia è fatta di cicli: tra 10 anni ascolteremo solo cantautori. La trap non può essere duratura. Ma non è una speranza, è una convinzione: la musica cambierà per forza. Le canzoni cosiddette leggere degli anni ‘70, come quelle di Patty Pravo, parlavano d’amore. Oggi la musica leggera parla di relazioni. Si è persa la disponibilità ai grandi concetti come l’amore e l’odio, ma torneremo a parlarne.