Intervista a cura di Il Granchio in Frack
Ma perché non l’ho conosciuto prima?
È questo che pensi dopo averci parlato dieci minuti. Simone è energico, sorridente ed infonde a chiunque gli stia intorno una briosa serenità. Ha un’innata gentilezza e un modo di esporti le cose talmente accattivante che potrebbe anche farti l’elenco dei detersivi acquistati al supermercato che ne saresti inevitabilmente affascinato.
Classe 1984 e un curriculum artistico da far livore all’invidioso più allenato, lui gli spettatori li incanta con la sua bravura ancor prima che con la sua presenza scenica. Lo definirei molto banalmente “un animale da palcoscenico”; protagonista o coprotagonista di musical, operette, drammi e commedie, tra le numerose pièce posso ricordarne alcune come “Cyrano”, “L’importanza di chiamarsi Ernest”, “La sposa cadavere”, “Trappola per topi”, “The Rocky Horror Picture Show”, “Analisi illogica” e “Alice nel paese delle meraviglie”.
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Simone, quando hai iniziato a fare teatro?
Il mio primo vero corso l’ho frequentato a otto anni. Tutti i miei amici di classe andavano ad una scuola di teatro vicino casa e io non volevo essere da meno. Ricordo che un giorno scoprii che non provavamo solo per imparare o per divertimento ma ci stavamo preparando ad un vero spettacolo, su un vero palco, davanti a vere persone. La cosa mi turbò sino ad un attimo prima del mio ingresso in scena. Ricordo ancora tutto con affetto: interpretavo un vampiro pauroso di nome Dracodard nello spettacolo “Il principino picchiatello e i pasticci nel castello”; entrare in scena e recitare difronte ad una così numerosa platea (seppur qualcuno in sala stesse sonnecchiando) mi piacque così tanto che capii subito che avrei voluto fare quello da grande. Ed eccomi qui. Nel corso degli anni ho frequentato scuole di circo, di burattini, di teatro, di musical e di doppiaggio e continuo a imparare cose nuove ogni giorno perché il mestiere dell’artista è un po’ come il copro umano: una continua trasformazione, evoluzione e cambiamento.
Mi vuoi dare a bere che è stato un vampiretto a condurti alla tua carriera di attore?
Proprio così, io da quel giorno non ho mai avuto in mente altre opzioni.
D’altronde chi nasce con un talento se lo sente sotto pelle, e per una come me che ha una stazione ferroviaria nella testa dalla quale partono treni con una frequenza imbarazzante, sentire storie come la tua è pura poesia. Ma Simone, oltre al teatro ti occupi di altro, giusto?
Hai ragione, da qualche anno presto la mia voce ad alcuni personaggi televisivi e cinematografici.
E quale dei due mondi ti appassiona di più?
Non saprei assolutamente rispondere. Nel teatro c’è un tipo di emozione, di adrenalina e di preoccupazione che nel doppiaggio non percepisco. Questo è dato sicuramente dal pubblico, dal non poter ripetere la scena, dal non sapere cosa davvero succederà sul palco. Diciamo che se devo pensare al doppiaggio in chiave umana lo definirei un “posto sicuro”, come una compagna o compagno di vita con cui sei completamente te stesso, è il luogo nel quale sai che puoi lasciarti andare. Considerando l’indole scatenata e imprevedibile del teatro invece (ed in particolare del musical theatre), direi che potrei considerarlo come un amante che dà quel brio peccaminoso al rapporto.
Quando hai iniziato a fare doppiaggio?
Ho iniziato con i primi turni intorno ai 20 anni. Mi ricordo ancora il primissimo provino con un direttore mitico che si chiamava Enzo Bruno. Ho provato puro terrore e felicità. Sembravo un pulcino in un angolo che aspettava la fucilazione. Se ci ripenso ora mi viene tenerezza.
Hai doppiato un’infinità di personaggi dei cartoni animati, serie tv e film, puoi farmi qualche nome?
L’attore più famoso a cui ho dato la voce è Domhnall Gleeson, che è stato anche nell’ultima trilogia di “Star Wars”. Poi Wilmer Valderrama, Munro Chambers e il mitico Grande Pollo Rosso di “Dora l’esploratrice”.
Cosa significa cambiare ogni volta personalità/personaggio?
Significa principalmente divertirsi. Questo mestiere è prima di tutto divertimento. In italia lo chiamiamo recitare, una parola che risuona austerità. In inglese si dice “to play”, ovvero giocare. Quando cominciamo a prenderci troppo sul serio e in molti ahimè lo fanno, è finito tutto.
Ti è mai capitato di spostarti all’estero per studio o per lavoro?
Qualche anno fa ho fatto uno spettacolo in inglese a Miami, in un teatro che si chiama Empire Stage. C’erano repliche tutte le sere e sono andato in scena per due mesi consecutivi. È stata una delle esperienze più entusiasmanti della mia vita. Ho conosciuto persone meravigliose e ho messo via ciò che di nuovo ho imparato, riponendo tutto in quel bagaglio di esperienze che ogni artista ha e che si sa, come la borsa di Mary Poppins, non è mai pieno veramente.
Che mondo è quello del teatro?
Dipende da che punto di vista lo vedi. Da spettatore è una realtà meravigliosa, un luogo che deve essere assolutamente frequentato. È il mondo che ti regala le emozioni finte più vere che esistano. Da attore invece, è il posto di lavoro e come in ogni posto di lavoro si deve avere la fortuna di poter condividere il tempo e la fatica con belle persone. L’aspetto umano è fondamentale e, a mio avviso, capita molto spesso che questa parte venga dimenticata per lasciar spazio ad egocentrismi e inutili rivalità.
Simone, che tipo di viaggiatore sei?
Disorganizzatissimo. Prenoto tutto all’ultimo, non mi preparo sui luoghi, non sbircio niente da guide o internet, non studio itinerari. Amo farmi sorprendere da ciò che trovo proprio come nella vita.
Un approccio che non ho mai preso in considerazione ma che trovo di un’eleganza e di una suggestione uniche. Perciò Simone, cos’è il viaggio per te?
È tutto quello che vuoi che sia: è scoperta, relax, emozione, curiosità, suoni, odori sconosciuti. Non so come mai, ma mentre ti rispondo, mi viene in mente che la cosa che faccio sempre quando viaggio in una nuova città, è andare a fare la spesa in un supermercato per osservare cosa comprano e cosa mangiano le persone del luogo.
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