Divertente e giocosa commedia di Pirandello, esula dalla tematica del drammaturgo incentrata sulla forza della verità nella follia, proiettandoci nelle atmosfere verghiane della campagna siciliana e della difesa della roba come patrimonio destinato alla discendenza.
Nell’ambiente del borgo contadino, Liolà è uno scanzonato bracciante che vive con spensieratezza ogni evento della vita, cantando e scardinando le regole della società rurale. Affidati alla madre i tre figli avuti da donne diverse, bello e sfrontato, conquista tutte le ragazze con la forza ancestrale della vita che non conosce convenzioni.
Più tipicamente pirandelliano è zio Simone, il ricco proprietario che, non riuscendo ad avere un erede dalla giovane moglie, accetta di riconoscere quello generato col contributo di Liolà, per salvare la sua virilità e il patrimonio.
Tuzza, messa incinta anch’essa dal giovane con cui rifiuta il matrimonio riparatore, vede così fallire il piano macchinosamente architettato con la complicità della madre, di far riconoscere il bambino da zio Simone per salvare il suo onore di maschio e il proprio.
Liolà, con la spensieratezza gaudente di chi si ribella all’ingiustizia, aiuta Mita a dare un erede al marito per ristabilire gli equilibri e sventare i raggiri. A ciascuno il suo, grazie alla forza della vita.
Scritta nel 1916 dal drammaturgo di Girgenti in lingua siciliana in un momento angoscioso della vita, ispirata a un episodio del Fu Mattia Pascal e della novella La mosca, lo stesso drammaturgo dichiarò che non sembrava opera sua. La difficoltà di comprensione dei dialoghi, indusse l’autore a tradurla in italiano nel 1927.
La scelta registica di Francesco Bellomo colloca la vicenda nei primi anni ’40, facendo esprimere gli anziani con linguaggio marcatamente siciliano e i giovani con intonazione meno accentuata.
La scenografia di Carlo De Marino propone un borgo marinaro di semplici case intagliate nella bianca roccia di Porto Empedocle, che evoca la Scala dei Turchi adiacente alla casa natale di Pirandello.
Gli eventi narrati sottendono retaggi culturali antichi che prevedono il matrimonio come unica modalità per una ragazza orfana e povera di assicurarsi un avvenire, garantendo nel contempo all’anziano sposo una progenie cui destinare gli averi.
Tutti i personaggi principali sono mossi dall’ingordigia di realizzare i propri obiettivi, mentre Liolà affonda la mancanza di senso morale in un personale senso di giustizia, prodigandosi per dare a zio Simone una discendenza legale sventando il piano di Tuzza che lo ha respinto, ripristinando una moralità apparente e una giustizia reale.
Enrico Guarneri rimanda al primo interprete Angelo Musco e ai successivi Turi Ferro e Modugno, per la naturalezza con cui esprime il suo potere atavico gretto ed egoista in un universo femminile governato dall’astuzia. Anna Malvica è straordinaria nella parlata e nella gestualità di zia Croce, dedita al bene della figlia Tuzza, la schiva e fiera Roberta Giarrusso. Giulio Corso, che ha esperienze di teatro musicale, esprime baldanza e gioia di vivere, entrando in scena con spavalda disinvoltura e cantando le canzoni siciliane della tradizione ammiccando alla commedia musicale, incantando le donne giovani ed anziane che puliscono l’origano nel cortile, nel tempo tra la raccolta delle mandorle e la vendemmia. Incapace di assumersi responsabilità, giustiziere spensierato, verrà giustiziato da Tuzza che laverà nel sangue il disonore, con una variante rispetto al finale scritto dall’agrigentino: “Il divertimento in questa commedia è solo di fondo. Ogni personaggio ha un dramma dentro, e la morte di Liloà li racchiude” sostiene il regista. Nadia Perciabosco è sua madre Ninfa che ne asseconda la spensierata vitalità. Margherita Patti è comare Gesa, Sara Baccarini (Luzza), Giorgia Ferrara (Ciuzza) e Federica Breci (Nela) le tre contadinelle. La Moscardina di Alessandra Falci è la corposa figura che tesse la trama della vicenda.
Uno spettacolo che si afferma nella coralità, accompagnata dalle musiche di Mario D’Alessandro e Roberto Procaccini.