Ha cento anni ed è attuale.
Il dramma più noto del teatro pirandelliano suscitò molta perplessità nel pubblico del Teatro Valle alla prima rappresentazione del 1921. Scardinando le unità aristoteliche di tempo, luogo e azione codificati dall’umanesimo cinquecentesco e gli stilemi della narrazione teatrale che prevede i personaggi ideati dall’autore interpretati dagli attori, in questo dramma della trilogia del “Teatro nel teatro” sono i personaggi a presentarsi sul palcoscenico proponendo la rappresentazione della loro dolorosa vicenda umana. Anzi, a inscenarla personalmente andando indietro nel tempo, insoddisfatti dell’immedesimazione degli attori.
Mentre un capocomico dirige le prove del “Il giuoco delle parti” dello stesso Pirandello, irrompono sei persone vestite a lutto chiedendo di rappresentare il loro personale dramma che nessun autore ha voluto scrivere: un uomo dall’apparire distinto, una donna affranta, un giovane scontroso, una ragazza sfrontata, un giovinetto e una bambina silenziosi.
All’irritazione iniziale della compagnia fa seguito l’attenzione al racconto dei personaggi che non hanno un nome, solo un ruolo.
Il Padre, accortosi dell’innamoramento della Madre per il segretario la lascia libera e affida il Figlio a una balia. Morto l’uomo, la Madre con la Figliastra, il Giovinetto e la Bambina cadono in miseria e la donna trova lavoro come sarta presso Madama Pace che, scontenta di lei, induce la ragazza a incontrare gli uomini nel retrobottega. Un giorno, riconosciuto in un cliente il Padre, la Madre confessa la situazione e poi si stabilisce con i figli presso di lui, ma il Figlio li respinge.
Questo dramma familiare è vissuto ed espresso da ciascuno secondo la propria verità, inconciliabile con quella degli altri. Potrà un autore rappresentare tale caleidoscopio di sentimenti: il rimorso del Padre, l’angoscia della Madre, la vendetta della Figliastra, il risentimento del Figlio, la rassegnazione del Giovinetto, la paura della Bambina?
Gli attori della compagnia sono inadeguati. La vita sovrasta la rappresentazione. “Ma che finzione! Realtà, realtà, signori! Realtà!” grida al capocomico il Padre sopraffatto dal dolore.
Letteratura, vita, finzione, realtà. La rivoluzione pirandelliana frantuma gli schemi di scrittura e rappresentazione. I personaggi cercano un autore e ricusano gli attori incapaci di interpretarli.
La visione registica di Claudio Boccaccini ancora la vicenda alla contemporaneità, con la compagnia teatrale in colorati abiti moderni e i neri personaggi che affiorano dal passato proponendo una vicenda di perenne universalità, ridelineando i loro profili come simboli di incomunicabilità. I personaggi raccontano una storia realistica dalle sfumature psicanalitiche che, sfrondata da un eccesso di drammaticità, vira verso un’aura burlesca nell’invenzione scenica di far apparire Madama Pace come un ectoplasma dietro uno specchio, un uomo vistosamente vestito e truccato da donna che parla con voce cavernosa un’improbabile lingua spagnoleggiante. È il crogiuolo inestricabile della realtà nella finzione, o della finzione nella realtà.
La scenografia è pressoché inesistente, lo spazio scenico è ripartito dalla luce, illuminato a sinistra quello degli attori in abiti colorati, in penombra a destra quello dei personaggi con abiti neri. Impossibile compenetrare i due spazi.
Cesura di luci, colori e recitazione: esuberante quella degli attori della compagnia, vibrante quella dei personaggi.
Silvia Brogi palpita di angoscia e materno accoramento per ciascuno dei figli, Felice Della Corte è composto e misurato nel ruolo del Padre, Francesca Innocenti è la Figliastra sfrontata e arrogante, Gino Ariuso il dinamico e scettico capocomico e con Gioele Rotini, Marco Lupi, Titti Cerrone, Luca Vergoni, Andrea Meloni, Jessica Agnoli e Fabio Orlandi.