produzione FLORIAN METATEATRO – Centro di Produzione Teatrale
in collaborazione con TEATRO della TOSCANA
di Massimo Sgorbani
con Gianluca Ferrato
scene Massimo Troncanetti
costumi Elena Bianchini
assistente alla regia Jonathan Freschi
impianto e regia Emanuele Gamba
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Truman Capote – Questa cosa chiamata amore è uno spettacolo da e su uno dei più grandi scrittori americani del ‘900, in uno spazio teatrale mutevole e leggero, una pelle prismatica di camaleonte pronto alla trasformazione, com’era la lucentezza della prosa dell’autore di A sangue freddo, di cui quest’anno ricorrono i 50 anni dalla prima pubblicazione. “Tutta la letteratura è pettegolezzo“. Così Truman Capote liquidava con una delle sue abituali provocazioni anti- letterarie qualsiasi visione sacrale dell’arte e dell’artista. ‘Pettegolezzo’ inteso come svelamento di ciò che non si sa, indagine sui lati oscuri dell’America, in modo leggero e profondo, snob e vivace come un vodka martini. È il Capote più irriverente, infatti, quello che emerge da Truman Capote questa cosa chiamata amore, in cui Massimo Sgorbani disegna per Gianluca Ferrato, diretto da Emanuele Gamba, un dandy, un esibizionista, un personaggio pubblico prima ancora che un grande scrittore: l’anticonformista per eccellenza, che può permettersi di parlare con la stessa dissacrante arguzia di Hollywood e della società letteraria newyorkese, di Jackie Kennedy e Marilyn Monroe, di Hemingway e Tennessee Williams, senza mai risparmiare se stesso, i suoi vizi, le sue manie, i suoi successi e fallimenti.
Il suo stile, decadente, ironico e iconoclasta ha segnato la letteratura degli Stati Uniti. Truman Capote, geniale scrittore, giornalista e drammaturgo, è stato, dopo Hemingway, forse il più grande esempio di autore divenuto protagonista, e vittima, dello star system a stelle e strisce. Un predestinato alla scrittura. Inizia a scrivere a otto anni, a diciassette le prime pubblicazioni, a diciannove vince il primo O. Henry Award della sua vita. Il suo stile è già formato, come ammetterà lui stesso negli ultimi anni della sua vita; cambia l’oggetto dei suoi racconti, la materia tra le mani, ma il suo stile è quasi identico a quello della sua giovinezza, e si basa tantissimo sul suono e sul ritmo delle parole.
Dopo un’infanzia difficile e con l’aggravante, per l’America dell’epoca, dell’omosessualità, Capote, sotto i lustrini di feste e copertine di riviste, ha saputo raccontare tanto la frizzante società newyorkese, quanto il cuore più nero del suo Paese. Il tutto con una lingua costruita alla perfezione, vero elemento distintivo della sua produzione, tanto quanto i temi di cui si è occupato nei suoi libri, da Colazione da Tiffany a Marlon Brando.
Partito dai bassifondi, lavorando come fattorino, Capote ha conosciuto il successo con i racconti, per poi imporsi definitivamente con il romanzo-verità A sangue freddo di cinquanta anni fa (1966), storia del massacro di una famiglia e capostipite di un nuovo tipo di giornalismo letterario. Poi alcol e droga hanno infiacchito il suo talento, a lungo cristallino e unico. Ma trent’anni dopo la sua morte, per cirrosi epatica nell’agosto del 1984, a neppure 60 anni di età, non possiamo che rimpiangere il suo genio e anche la sua candida e disperata voglia di stupire e, probabilmente, di essere apprezzato e amato.
“Quando Dio ti concede un dono, ti consegna anche una frusta; e questa frusta è intesa unicamente per l’autoflagellazione“. Se per Capote il suo talento è stato una frusta, per tutti noi è stato solo piacere puro.
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VODKA MARTINI PER TUTTI!
Non ho preteso di scrivere una biografia teatrale di Truman Capote, né un’ambiziosa ‘interpretazione’ della sua figura letteraria. Tanto meno di portare sulla scena quel che lui ha già detto meglio di chiunque altro. Solo di render conto di quel che ogni grande scrittore continua a dire anche a chi lo legge a distanza di anni. Non mi è stato difficile evitare di ‘specchiarmi’ in un personaggio per tanti aspetti così lontano da me. Pur assumendomi la responsabilità della mia anacronia, ho solo cercato di raccogliere quel che Truman Capote ha seminato. Questo è quel che mi ‘ha raccontato’, con la straordinaria leggerezza di chi chiacchiera sorseggiando un Vodka Martini. Il lato oscuro di un’America che altri – prima, insieme e dopo di lui – hanno esplorato. La paura dello sconosciuto che minaccia la tua famiglia e la tua proprietà. La paura (e insieme l’attrazione) che suscita il ‘diverso’, ma anche la paura che lo stesso diverso prova sentendosi tale e tentando di essere accettato, salvo scoprirsi in extremis ‘tollerato’ (come diceva Pasolini) solo ipocritamente, e riappropriandosi dell’unica identità che, a ben vedere, gli è stata realmente concessa: quella di intruso, di presenza minacciosa. Tante armi da fuoco: Colt, Winchester, bazooka, bombe, napalm, ‘pistole fumanti’ o pistole letterarie come quelle dichiarate dallo stesso Capote a proposito del suo Preghiere esaudite («Il libro è diviso in quattro parti e, in effetti, ha proprio la struttura di una pistola. C’è l’impugnatura, il grilletto, la canna e, alla fine, il proiettile»). Colonizzazioni impossibili, integrazioni fasulle, ribellioni coltivate inconsapevolmente nel salotto di casa. Il mito dell’ascesa sociale, dell’integrazione, di un diritto alla felicità iscritto nella Costituzione (al pari del diritto alla difesa personale) e che suona quasi come un imperativo se non, in modo sinistro, come un ordine militare. Il mito della libertà, il fatto che vederla o pensarla sempre minacciata garantisca, se non il suo effettivo esercizio e godimento, almeno la sua continua salvaguardia e riconquista. Un’America bisognosa degli Hickock e Smith che ti entrano in casa nel cuore della notte, quasi che non ti aspettassi altro, in fondo. Un’America sempre sveglia e vigile nel suo letto, come il vecchio de Il cuore rivelatore di Edgar Allan Poe. Dio benedica quell’America e danni i suoi cantori.
Dei dannati come Truman Capote (e di quelli a seguire) ho tentato di parlare. Lo ringrazio per la sua sagace ubriachezza.
Massimo Sgorbani
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Nevicava quella sera a New York. Era Febbraio e faceva un freddo cane. Ma io ero lì con un fiore in mano, pronto a lasciarlo davanti alla casa di Philip Seymour Hoffman, l’attore che di fatto mi aveva messo sulle tracce di Truman Capote con la sua sbalorditiva interpretazione che gli valse il premio Oscar. Si ‘trasformò’, in un film intitolato Capote, nel grande e irriverente scrittore, come lo sanno fare solo i fuoriclasse. E mi piacque a tal punto che decisi di andarlo a incontrare di persona il piccolo grande Truman. Per Seymour Hoffman, ero arrivato in ritardo, ma per conoscere uno scrittore non c’è niente di meglio che leggere i suoi libri, che spesso, più della persona stessa, raccontano chi è. O chi è stato. E ho cominciato a macinare pagine su pagine. E come spesso accade, quando ti imbatti in un genio, sono rimasto folgorato. A onor del vero, a irrobustire il mio desiderio di portare in scena un mio personale Truman, ha contribuito un altro attore, questa volta inglese: Toby Jones, che ha fatto uno strabiliante Capote nel film Infamous. E a quel punto ho capito che, forse, si poteva fare, si poteva rischiare di trasformarsi e diventare anch’io, e per la prima volta nella mia carriera, una ‘maschera’. Non già dietro il più rassicurante schermo, ma in prima linea, su un palcoscenico. E tutto è cominciato. Decidendo, per prima cosa, di farmi dirigere in questa perigliosa navigazione da Emanuele Gamba regista conosciuto per ‘Spring Awakening’ e con cui è nato questo desiderio di continuare a scommettere insieme a viso aperto.
Lui, Emanuele, mi ha chiesto: «perché Truman Capote?». E, allora come oggi, faccio fatica a rispondere. Ma gli ho promesso che ci proverò e lo faccio. Adesso. Dunque, escluderei la vanità. Pur essendo un attore, non abita dalle mie parti. La vanità. Forse una sfida, quella sì. Per vedere se sono capace a osare tanto, a diventare così smaccatamente un altro da me. E che altro! Certo per fare una trasformazione, la galleria di personaggi poteva essere infinita. Avrei potuto essere da Chaplin a Pitsorius, ma c’è, in Capote, qualcosa che va al di là, che colpisce, ipnotizza, la mia fantasia.
Intanto lo straordinario gusto per la Parola, il racconto, l’aneddotica, fino ad arrivare alla bugia che ho sempre trovato così eccitante.«Io sono un bugiardo. Un bugiardo che dice sempre la verità», scriveva Jean Cocteau. Perfetto, anche per Truman. E, forse, anche per il sottoscritto. Bisogna avere una favella di prim’ordine per essere bugiardi. E una memoria da record. Credo che a Capote, entrambe le cose, siano state elargite in gran quantità. E poi la perfidia che assomiglia da vicino al desiderio di stupire, di lasciare di stucco, di non passare inosservati. Di dire, talvolta, verità scomode. Io sono lontano da tutto questo anni luce, ma ne sono affascinato come lo ero da certe persone che ho conosciuto nella mia vita e che invece questo gusto ce lo avevano sviluppato all’ennesima potenza. Perché spesso cerchiamo di stupire per essere accettati. O amati. Si cerca il successo per esserlo. Amati, appunto.
Mi sarebbe piaciuto essere eccentrico come Truman. Ma non ne avrei mai avuto il coraggio. Ma il palcoscenico te lo consente perché su quelle quattro tavole, puoi tutto. Si tratta di avere coraggio. E come dice qualcuno: «Il coraggio è fatto solo di paura». Forse tutti e due, io e Truman intendo, abbiamo avuto una carriera amorosa scandalosa agli occhi dei più. Certo, io non posso vantare nei miei racconti, le misure anatomiche di Errol Flynn, non ho mai sfidato a braccio di ferro Humprey Bogart e, cosa ancora più elettrizzante, non sono mai entrato nella camera da letto di Marlon Brando. Ma anch’io, come direbbe una bella canzone: «posso dire la mia sugli uomini».
Ma c’è in Truman Capote una cosa che mi colpisce più di ogni altra. Il senso di struggente malinconia, o, come direbbe Pasolini, di «disperata vitalità». Ecco, a queste sensibilità, con le dovute proporzioni, sento di potere assomigliare. Non so perché percepisco un legame fitto fra malinconia e vitalità. Sembrerebbero agli opposti. Ma non lo sono. Ci si sforza talvolta di essere vitali, di sfidare le regole del tempo che passa, per sfuggire al senso di struggente malinconia. «Ho sempre cercato di esorcizzare i miei demoni, le ansie sotterranee che dominavano i miei sentimenti e la mia fantasia: il mio ignorare tutto questo era probabilmente uno scudo protettivo fra me e la fonte inconscia del mio soggetto», scrive Capote parlando del suo romanzo Altre voci altre stanze. Per tutte queste ottime ragioni, sto da trent’anni su un palcoscenico a raccontare chi sono.
Insomma, ho voglia di giocarmela questa partita a Teatro. Un giorno chiesero a Truman: «E come fai a sapere che quello che scrivi avrà successo?» E lui rispose: «È come il baseball. Imboccare il primo lancio buono è difficile. Ma una volta fatto quello, il resto è facile». Quindi basterà pronunciare le prime battute che Massimo Sgorbani scriverà per me e, forse, tutto mi sembrerà più facile.
C’è il sole adesso fuori. Lo stesso che c’era a Brooklyn davanti alla casa di Truman, il giorno dopo del fiore posato per Philip Seymour Hoffman. Allora come adesso sentì che il cerchio si chiudeva. Come per magia. Suonano le note di Moon River e mi siedo per una Colazione da Tiffany. ‘La forma delle cose’ è più chiara. ‘I cani abbaiano’ e, finalmente, forse, le mie saranno ‘preghiere esaudite’.
Gianluca Ferrato
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TEASER – https://www.youtube.com/watch?time_continue=11&v=N6l9SZ6Q1lY