In una delle poesie più belle del XX secolo, Io ringraziare desidero, scritta da Mariangela Gualtieri ed ispirata alla Poesia dei doni di Jorge L. Borges, della quale non è solo attenta rivalutazione, la grande autrice cesenate fa luce sulla grandezza dell’esistenza.
Nel lungo, meraviglioso elenco – termine che non mina affatto il valore del testo – Mariangela Gualtieri scrive un verso che mi pare di particolare rilievo, capace di passare quasi inosservato in virtù della sua specifica collocazione all’interno della poesia:
“[…]per chi è indifferente alla notorietà”
Un verso folgorante in un tempo di grandi ambizioni e piccoli uomini, piccole donne. Dai professionisti del cinema a quelli dello sport, dai mestieranti televisivi a quelli del teatro sino a giungere, in modo improbabile e tuttavia terribile, ai grandi protagonisti dell’attualità, magari esperti di piccoli amori.
Chiunque, adesso, potrà certamente accusare quest’articolo di essere un misero tribunale, un indice corto e nondimeno ben puntato. Un pulpito, addirittura. Eppure, mi sia concessa una leggera difesa. Senza ricorrere a filosofie già svanite nel bruciare del tempo e ristabilendo la giusta distanza dal maledetto incombere del giudizio, mi pare pur doveroso provare a fare un po’ d’ordine, ché talvolta è necessario bruciare le sterpaglie dei campi: vi assicuro che il caos, per i contadini, non è una forma d’arte.
Mi sembra di dover infatti ritenere, dopo aver millantato con esiti tutto sommato felici in alcuni dei campi sopra citati – chi è senza peccato scagli la prima pietra – che la notorietà, così come la strenua ricerca della fama, sia il definitivo tradimento dell’intenzione originale. Pur senza scomodare il divismo, termine abusato eppure essenziale, ho potuto riscontrare in molti personaggi, ormai sul carro della celebrità, una condizione che, da fanciullo ingenuo, attribuivo un tempo soltanto a Dio: l’irraggiungibilità. Così, è necessario attraversare un mare in tempesta per spingersi fino ad un breve dialogo con certi attori e certe attrici, eccezion fatta nei giorni che precedevano spettacoli che, al botteghino, incespicavano dopo pochi biglietti venduti. Qualcuno dirà, con saggezza, che si tratta di artisti e che, di conseguenza, ogni loro gesto ha una ragione recondita che i comuni mortali non possono concepire. Per quanto possa essermi di conforto la biologia, scienza meravigliosa, mi piacerebbe rispondere ricordando che Léo Ferré, cantautore francese tra i più grandi di ogni tempo, aspettava l’inizio del suo concerto tra la folla accorsa, discutendo amabilmente, condividendo un po’ di vino, molte sigarette. Poiché Ferré, pur nel suo infinito anarchismo, aveva compreso a fondo la sua natura di Voce. Sapeva di essere uno strumento per un ideale più grande persino di lui: la fine dell’oppressione, la libertà.
Sarebbe curioso conoscere la concezione che le star – piccole e grandi – custodiscono gelosamente. Se sanno di essere corpo e voce in dovere di restituire un’indiscutibile grandezza o se, al contrario, pensano che il pubblico, questo ammasso senza volto né nome, cerchi realmente di loro. Risulta peraltro curiosa una loro curiosa tendenza: si offrono di aiutare, sorreggere i giovani talenti pubblicamente, per poi abbandonarli nel privato, timorosi di perdere un po’ della loro incredibile fama.
La verità, termine grandioso, me lo perdonerete, è che il concetto di star system è finito perché si è diffuso in modo estremamente capillare, addirittura omogeneo. E resta soltanto un’infinita pena, una compassione, una pietas d’altri tempi per coloro che credono nell’equazione tra valore e celebrità. Tanto che – concludo con uno slancio degno di Nietzsche e amorevolmente rubato alla coppia formata da Gaber e Luporini – io, se fossi Dio, mi ritirerei in campagna. Proprio come ho fatto io.