Ultima domenica di spettacoli prima della chiusura dei teatri nelle tre regioni più colpite dal Coronavirus, quella del 23 febbraio. Ultimo spettacolo da me visto e chissà per quanto tempo recensito (forse non a caso) la trasposizione teatrale di uno dei capisaldi della letteratura mondiale di tutti i tempi: I miserabili, 1500 pagine dense, difficili da affrontare, pregne di temi universali filtrati attraverso una vicenda ambientata in Francia in un arco temporale che va dal 1815 al 1832, dalla Restaurazione postnapoleonica alla rivolta antimonarchica.
Franco Però dirige il coraggioso adattamento di Luca Doninelli, che “strizza” (per ovvie ragioni sceniche) il romanzo storico del grande Victor Hugo in tre ore, asciugando la vicenda eliminando personaggi secondari ed eventi considerati superflui. Ciò che rimane è comunque molto corposo e vince a pieni voti la scommessa della riduzione teatrale, prima d’ora compiuta solamente dal celebre musical da trent’anni sui palcoscenici del West End londinese.
Nella Francia dell’Ottocento bastava rubare una baguette per essere condannati a quattro anni di lavori forzati, aumentati a venti se si tentava l’evasione o si aiutava un altro malcapitato a sollevare un pesante macigno. Queste le colpe dell’iconico protagonista Jean Valjean, qui magistralmente interpretato da uno dei pochi attori “di razza” italiani, Franco Branciaroli. Valjean fa parte della schiera di quei “miserabili” che la società non vede, anzi relega nei bassifondi sperando che scompaiano, reietti di un mondo che ambisce alla perfezione ma che nasconde solo immoralità e inumanità. Prostitute, poveracci, mendicanti ma anche artisti e gente semplicemente caduta in disgrazia sono preda di quel braccio fiero e severo della Legge che non risparmia nessuno, aggiungendo disperazione a disperazione.
«Un’importante induzione verso questa scelta viene dal momento che stiamo vivendo nelle società occidentali, dove si assiste all’inesorabile ampliarsi della forbice fra i molto ricchi e i molto poveri, fra chi è inserito nella società e chi invece ne è ai margini», così il regista Però parla dello spettacolo, ambientato in un asciutto scenario in bianco e nero, che si muove fra alte lastre grigie che, spostandosi, svelano di volta in volta i diversi luoghi (simbolici) della vicenda, “sfogliandosi” come le pagine di un libro.
Ne risente forse l’impatto di alcune scene, come quella delle barricate in cui perdono la vita i giovani ribelli (sui quali spicca la bravissima Silvia Altrui), simbolo della resistenza antimonarchica, ma questa scelta fa emergere, d’altro canto, una sopraffina caratterizzazione psicologica dei personaggi, dalla esclusa e disprezzata Eponine (l’intensa Valentina Violo) al coraggioso sognatore Marius (Filippo Borghi), che rinuncia alle idee monarchiche del nonno e alla rendita familiare, passando per l’uomo della Legge, di cui è però irrimediabilmente schiavo, Javert (Francesco Migliaccio).
Su tutti emerge il quasi sempre presente Branciaroli, il cui Jean Valjean cerca con tutte le forze la redenzione, trovandola nell’affetto della figlia adottiva, tra le cui braccia si spegnerà serenamente suggellando la sua vita nella celebra frase: «Amare o aver amato, basta: non chiedete nulla, dopo. Non è possibile trovare altre perle nelle oscure pieghe della vita: amare è esser completi.»