dall’opera di Svetlana Aleksievič
riduzione teatrale di Massimo Luconi e Mascia Musy
con Mascia Musy, Francesco Argirò
musiche Mirio Cosottini
costumi Aurora Damanti
regia e ideazione scenica Massimo Luconi
produzione Festival di Radicondoli/Fondazione Istituto Dramma Popolare
collaborazione organizzativa Factory tac
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Di che parlare? Della morte o dell’amore? Questo si chiede Mascia Musy in apertura di uno spettacolo che tenta di riportare alla dimensione umana una disgrazia senza pari. La più grande tragedia nucleare della storia, neanche 35 anni fa. Ancora ce la ricordiamo bene, la nominiamo nelle discussioni di politica, scienza, storia, la chiamiamo in causa parlando di tutela dell’ambiente, di sicurezza sul lavoro. Ma la sentiamo distante, nello spazio ancor più che nel tempo, non ne conosciamo le vicende umane. Si parla della morte, non dell’amore.
Svetlana Aleksievic scrive Preghiera per Černobyl’ nel 1997, ma il testo arriva in Italia solo nel 2002 e il successo col Premio Nobel per la Letteratura nel 2015, poi con la miniserie televisiva dello scorso anno. La commissione di Stoccolma definisce la sua scrittura “un monumento alla sofferenza e al coraggio nel nostro tempo”. Il nostro tempo.
26 aprile 1986, sono passate da poco le 1 di mattina. Esplosione, boato, incendio. Tanti volontari accorrono per rimediare a una catastrofe di cui ancora non c’è coscienza. Qualcosa si è rotto e va riparato, qualcuno è ferito e va salvato, questo si pensa, ma ancora non si parla di radiazioni. Se ne parlerà dopo, tanto, fino allo sfinimento, com’è giusto. Ma ancora nessuno parla di radiazioni. Si vive intorno al reattore, ci si lavora senza sosta, ci si manda i bambini a raccogliere gli ortaggi. Solo dopo qualche giorno iniziano le evacuazioni, ma ormai è tardi.
Il dramma di un piccolo paese dell’Unione Sovietica diventa presto una questione di portata mondiale. Il dramma di una giovane donna che assiste il marito negli ultimi giorni di vita è necessario per recuperare l’umanità della storia. Di questa storia e della Storia mondiale contemporanea. Quattordici giorni sono il tempo che le radiazioni concedono ai due, quattordici giorni di straziante, infinito amore. La morte è già lì, ma loro non la considerano. Lei non la vede, ha occhi solo per lui. Di che parlare? Dell’amore, finché si può. Dell’amore, perché si deve. E poi della morte, perché si deve parlare anche di quella, ma è dall’amore che bisogna partire, se si vuole misurare la tragedia.
Mascia Musy impersona il dolore atroce, la forza sorprendente di una donna a cui l’amore impedisce la lucidità della rabbia. Accanto a lei, ma in qualche modo sempre distante, Francesco Argirò è la voce consapevole e rassegnata di chi vive la tragedia e ne valuta le conseguenze storiche. Entra in scena a metà spettacolo, aggiungendo qualcosa di fondamentale ma successivo, in una resa scenica che mira a ribaltare la gerarchia tra il piano individuale e quello generale. La direzione di Massimo Luconi concentra in un’ora tutto ciò che di indispensabile e drammaticamente intenso il disastro di Černobyl’ aveva ancora da dirci.
Il caso ha voluto che lo spettacolo andasse in scena in questi giorni di tensione, in cui la sensibilità di noi spettatori era forse più pronta del solito ad accogliere il messaggio. Che ne possiamo far tesoro, soppesando l’importanza della divulgazione scientifica e i rischi che essa corre in un mondo in cui le paure corrono veloci come le notizie e noi non riusciamo a starci dietro, aumentando quelle distanze che negli ultimi 35 anni si sono esponenzialmente accorciate.
Intanto, alle Spiagge come in tutta Firenze, #ilteatrononsiferma, come grida la campagna lanciata dal Teatro di Rifredi.