Siamo al 26esimo giorno di quarantena nazionale (o almeno mi sembra) e in questo periodo di esilio forzato vedo post e storie di gente che si diletta a fare il pane, la pasta, la pizza, le torte, i biscotti, poi ancora pane, pasta, torte, e ancora una volta pane, pasta, torte… così, all’infinito. Dopo l’Amuchina e le mascherine, il lievito è ormai stabile ai primi posti come oggetto del desiderio di ogni buon italiano che si rispetti.
Io cerco non farmi prendere dalla sindrome della cucina e mantengo fede alla mia incapacità culinaria, lasciando l’uso del forno e dei fornelli a Lele che, in questi giorni, si è unito alla banda del lievito sfornando roba di alta qualità e impedendomi di cadere nel tunnel del junk food e dell’immensa voglia di sgranare quantità illimitate di troiai.
Intanto, mentre lui si diletta nel ruolo di chef (ricordandomi uno dei motivi per cui gli voglio molto bene), io mi specializzo nella sublime arte della videochiamate. Questo mezzo video-vocale di cui conoscevo a malapena l’esistenza è diventato un appuntamento fisso, soprattutto durante il weekend. Conversazioni fra 2, 3, 4 persone che diventano ingestibili se il numero aumenta in maniera esponenziale, con il rischio di imbastire dialoghi rumorosi in cui nessuno capisce davvero di cosa si stia parlando.
In realtà, a parte l’esigenza emotiva di sentire vicino tutti quelli a cui voglio bene (e quando dico tutti voglio dire anche gente che non vedo da ere geologiche) mi rendo conto che la mia routine non sia stata stravolta. Infatti, grazie al mio stato di disoccupata premium, ero già rodata alla vita casalinga e alla pratica di gestione della noia e della dedizione verso hobby vari ed originali.
Però, da qualche giorno, anche le mura di questa casa hanno, ad un tratto, aumentato il loro peso specifico e, a volte, anche quando il cielo è limpido e il sole sembra essere quello di luglio (perché comunque il problema del riscaldamento globale è sempre in mezzo a noi), quello che vedo fuori mi trasmette solo un grande senso di malinconia e anche scrivere, leggere o pensare diventa faticoso e complicato.
In questa situazione surreale il dramma umano è così maledettamente reale da portarmi con i piedi e il cuore schiacciati a terra.
Il mio umore giornaliero nella scala Britney – che potete vedere qui sotto – si alterna in maniera casuale e insensata tra la modalità “mangiatrice compulsiva” del numero 6 e la “sciattona” del numero 7, passando per “fitness girl” del numero 2 e “regina della nullafacenza” del numero 3, facendo un salto tra la “psicopatica rabbiosa” del numero 9 e la “psicopatica alle prime armi” del numero 8, assestandosi drammaticamente tra l’umore della “mater lacrimarum” del numero 4 e della “filosofa nichilista” del numero 5. Ovviamente non mi sento mai come la foto 1, neanche nei sogni.
Anche perché la mia attività onirica risente molto dalle situazione e dei decreti. Ciò che più di frequente si materializza nei miei sogni pandemici sono gli abbracci, i baci, gli aperitivi con gli amici e le conseguenti punizioni, richiami all’ordine e ammonimenti verso i miei comportamenti sconsiderati che non rispettano le norme igieniche e la distanza sociale.
Mi chiedo quando le carezze smetteranno di essere armi virali e, aspettando quel giorno, inserisco un nuovo punto nella lista delle cose da fare nel post pandemia.
Annoto sogni, aspirazioni, voli pindarici e piccoli obiettivi, luoghi che voglio scoprire e esperienze che voglio provare, persone lontane che voglio rivedere e amici che voglio abbracciare, libri che voglio leggere e appuntamenti fondamentali che devo prenotare (parrucchiera I need you).
E mentre le speranze si confondono con le paure, i sorrisi provano a nascondere gli sguardi catatonici persi a fissare il pavimento, cerco di pensare al momento in cui questo film distopico arriverà ai titoli di coda e potrò fare quella cosa che ho messo in cima alla lista.
Ballare.
Con i miei amici, con la mia famiglia, con mille sconosciuti.
E con quella camicia poco sobria e multicolore che ho visto nel sito di Disegual.