In questi giorni casalinghi, di teatri chiusi e spettacoli registrati, è lo schermo il palcoscenico su cui tutti ci esibiamo. Non soltanto attori e artisti, che si reinventano a denti stretti o vengono coinvolti nelle innumerevoli iniziative in rete, ma ognuno di noi, nelle videochiamate con gli amici, nelle riunioni di lavoro, nelle lezioni e negli esami in via telematica. Qualcuno era abituato, molti altri si sono trovati impreparati a questo nuovo, ormai unico modo di comunicare col resto del mondo. Inutile dire che ne sono nati episodi esilaranti – più per chi se li è gustati dal divano che per i protagonisti – subito diventati virali, come lo studente che si lamenta del voto di laurea senza spegnere il microfono o il consigliere che durante la riunione se ne va tranquillo in bagno portandosi dietro il telefono, convinto di aver interrotto il lavoro zelante della webcam.
Confidenza con lo strumento tecnologico a parte, c’è un aspetto che riguarda tutti, indistintamente: la scelta della scenografia. Sul trucco e parrucco, sull’inquadratura, sull’uso dei filtri per i più social, si potrebbe aprire una discussione, iniziare un’indagine statistica, fino a pubblicare studi scientifici dettagliati e manuali che andrebbero a ruba. Ma se c’è una cosa che ho imparato, frequentando in questi giorni molti più schermi di quelli che sono abituata a vedere, è che durante una videochiamata nessuno guarda chi parla. Certo ci si può chiedere, inizialmente, come la collega non abbia ancora trovato il modo di tingersi i capelli, perché il compagno di studi non abbia capito che i pantaloni del pigiama si vedono quando si alza a chiudere la finestra o se ci sia sempre stata quella superficie eterogenea, lunare si direbbe, sotto il cerone di trucco dell’ex coinquilina. Ma alla fine, perdonato tutto a tutti in uno slancio di inedita solidarietà, si passa a scrutare con perizia di curiosità tutto quello che sta dietro le spalle dell’interlocutore.
Innanzitutto, la stanza dove ha scelto di connettersi. Sempre che sia deducibile, perché taluni preferiscono non mostrare indizi, forse per mantenere una forma di privacy o per creare un’ambientazione neutra, o forse per evitare distrazioni. Più spesso, però, qualcosa si riesce a vedere e ogni oggetto che rientra nel rettangolo dello schermo sembra messo lì apposta per essere notato. Una foto, un poster, una pianta, per mostrare chi mi è caro, chi stimo, quanto sono green. Soprattutto quando si tratta di dirette sui social e collegamenti nei talk show televisivi. I personaggi pubblici, dai politici ai giornalisti, dagli scienziati ai letterati, che si alternano sui nostri schermi per spiegare, discutere, intrattenere, precisare, proclamare attirano ancora di più la nostra attenzione. Privati dei paparazzi, fortemente limitati del pane quotidiano del gossip, ci impegniamo al massimo per scrutare il chiacchierabile, sbirciare dietro la serratura delle loro porte di casa. Quanti metri quadrati sarà? Ci sarà la penisola in cucina? E l’open space?
Ma la maggior parte delle scenografie sono varianti di un grande classico sempre in voga. Il tubino nero dei collegamenti. Il must have della stagione: la libreria. Scrivania col computer, sedia comoda e atmosfera intellettuale. Protagonisti indiscussi sono i libri, o meglio le loro coste. Quanti sono, in che ordine sono sistemati, se la polvere è stata tolta – perché lo è sempre – da un domestico premuroso o dal proprietario, che sovente li legge, li sfoglia, li consulta. Colli allungati e teste reclinate nel tentativo di leggere qualche titolo, cercando gli indizi necessari a soddisfare i propri parametri di ricerca. Solo saggi ed enciclopedie? Intellettualoide di mentalità chiusa. Grossi tomi di fine rilegatura? Sborone. Testi brevi? Lettore improvvisato. Ordinati per colore? Maniaco. Libri scritti dallo stesso proprietario? Nel programma sono presenti inserimenti di prodotti a fini commerciali. E così via, allontanando con un sorrisino saccente l’ipotesi che possa essere tutto casuale. Sorvolando sulla possibilità che quella sia solo una piccola parte del patrimonio librario dell’intervistato. Il quale, beninteso, ha tutto il tempo per calibrare gli oggetti di scena che possano, a seconda del caso, aumentare o diminuire il grado di serietà manifestato. Un Jeeg robot a sdrammatizzare, un libro fantasy a svecchiare, una foto di famiglia a umanizzare, una sfilza di Adelphi a rassicurare, un disegno del figlio a commuovere.
Forse solo le conferenze stampa del presidente del Consiglio sfuggono alla curiosità scenografica. Forse. Se vi state già chiedendo quale sia il dipinto che sta alle spalle di Conte e di cui si scorgono solo una manciata di mezze gambe interrotte dalle bandiere di Italia ed Europa, si tratta dell’Incontro di Leone Magno con Attila di Raffaello Sanzio. Quello nella Sala delle Galere, o dei Galeoni, di Palazzo Chigi è solo una copia, l’originale si trova nei Musei Vaticani, visitabili online come tante altre gallerie e pinacoteche.