Simone Di Felice è dal 2017 Kapellmeister presso il Teatro dell’Opera di Francoforte, dove ha diretto un repertorio che spazia da L’incoronazione di Poppea di Monteverdi al Satyricon di Maderna, passando per Händel, Gluck, Mozart, Rossini e Verdi. Tra le voci con cui collaborato figurano Gaëlle Arquez, Brenda Rae, Jakub Jósef Orliński, Francesco Demuro, Franco Vassallo. Ha lavorato come assistente, tra gli altri, di Sebastian Weigle, Carlo Franci, Bertrand de Billy, Antonello Manacorda, Andrea Marcon, Piergiorgio Morandi. Ha diretto due produzioni rossiniane al Teatro di Basilea, repertorio sinfonico con la Tonkünstler-Orchester in Austria, e sono previsti progetti con il Festival di Erl e il debutto in Francia con il soprano Lisette Oropesa. Dal 2010 è libero docente alla Hochschule für Musik di Stoccarda.
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Maestro, la ringrazio innanzitutto per il tempo che ci concede. Quando è nata in lei la passione per la musica? Quando ha deciso che questo sarebbe stato il suo futuro?
Grazie a Lei e ai lettori. Da bambino ho iniziato lo studio del pianoforte a sei anni, parallelamente all’inizio della scuola elementare. Rientravo da scuola e correvo a sedermi al pianoforte senza nemmeno togliere lo zaino dalle spalle. È stato naturale continuare su questa strada.
Con chi ha studiato, e come ha mosso i primi passi in questa difficile e affascinante carriera? Immagino abbia iniziato con lo studio dello strumento prima di passare alla direzione…
Ho iniziato con lo studio del pianoforte, prima al Conservatorio, poi seguendo corsi di perfezionamento in tutta Italia. Franco Scala e Konstantin Bogino sono tra i Maestri che più profondamente mi hanno formato come pianista. Ho intrapreso gli studi di Composizione e ho avvicinato il mondo dell’Opera frequentando l’Accademia Maggio Musicale di Firenze. Quindi ho iniziato lo studio della direzione d’orchestra, affiancato dall’attività sul campo di maestro collaboratore al pianoforte e di assistente dei Direttori che si avvicendano nel corso delle stagioni d’Opera.
Lei ha diretto opere che spaziano dal barocco di Händel al contemporaneo del Satyricon di Bruno Maderna. Cosa cambia nell’approccio a opere così diverse?
L’aderenza dello spunto musicale all’affetto espresso dal testo è ciò che più mi affascina nel Barocco operistico. Segnatamente in Maderna noto un approccio sostanzialmente simile, fatte ovviamente salve le differenze di linguaggio. La scrittura del Satyricon è a mio avviso molto legata alla plurisecolare tradizione del cantabile, sia per quanto riguarda la struttura fraseologica, sia per il legame sotterraneo ma incrollabile con la retorica del testo. In questo senso l’approccio a opere cronologicamente così distanti non è poi molto diverso. Si tratta di scoprire e rivivere il gioco che il compositore ha intrapreso con quel testo, immaginarne gli entusiasmi e le difficoltà. D’altro canto esiste un esteso repertorio moderno di altra ispirazione, che richiede un metodo di lavoro per certi aspetti differente.
Quali sono i compositori dai quali si sente maggiormente influenzato?
Händel, Mozart, Rossini, Verdi, Puccini, Richard Strauss. Tra i meno spiccatamente operistici, ho un’ammirazione profonda per Schubert, Brahms, Ravel, Stravinskij e Kurtág.
Cosa cerca, e trova, in Rossini che recentemente ha diretto così tanto, dalla Gazzetta di Francoforte al Barbiere a Basilea?
Rossini è un genio enigmatico. Passaggi musicali anche molto estesi vengono riutilizzati sostanzialmente identici in contesti drammaturgici talora molto differenti (i famosi autoimprestiti che hanno alimentato la leggenda semiseria della pigrizia del Nostro), eppure risultano in ogni caso perfettamente calzanti. Un esempio davvero eclatante riguarda proprio un celebre passo del Barbiere, ripreso nella Gazzetta in modo però tutt’altro che letterale, bensì deformato in frasi asimmetriche: una caricatura, un atto di autoironia, un bonario scherzo al pubblico? È appunto l’enigma di Rossini, che non smetterà mai di stupire. Una musica costruita di elementi codificati, astratti, quasi freddi, eppure toccata dal dono rarissimo di essere immediatamente riconoscibile: è Rossini.
Come avvicina una nuova opera che non ha mai diretto prima?
Ne ascolto diverse incisioni, per evitare condizionamenti interpretativi e cerco di inquadrarla storicamente e nella biografia del compositore. Poi entro nello studio sempre più dettagliato, suonando l’opera al pianoforte, sempre prendendo appunti su un quaderno dedicato: curiosità, idee anche bizzarre, tutto ciò che può venirmi in mente. Inoltre inizio prima possibile uno scambio idee con il/la regista.
Quali sono secondo lei le doti che rendono eccellente un direttore?
L’arte di unire sguardo d’insieme e dettagli; la capacità di capire e di fidarsi di un’orchestra; il carisma che consente di sublimare il lavoro di studio, di preparazione e di prove in epifania artistica al momento del concerto. Carlos Kleiber, per citare solo uno dei sommi, aveva un gesto di eleganza esemplare, emanava una grazia e una sicurezza perfino disarmanti. Si trattava della trasfigurazione di un lungo e certosino lavoro – prima di studio individuale e poi di prove d’assieme – oltre che di una sensibilità artistica straordinaria.
Come si relaziona con i maestri dell’orchestra? Come li motiva e li convince a seguirla? in fondo un direttore è un leader con un suo proprio stile di leadership…
Cerco di adottare un ruolo di primus inter pares. I musicisti d’orchestra hanno una formazione sempre più completa rispetto al passato. Compito del direttore – come di ogni musicista, del resto – è di approfondire lo studio dei brani che affronta ponendosi al servizio della musica. Evitare atteggiamenti egocentrici è anche segno di rispetto verso l’orchestra. La motivazione e la leadership vengono di conseguenza.
Tante volte si legge che le orchestre tedesche suonano diverse da quelle italiane o francesi. Ci può spiegare?
È un fenomeno che definirei paragonabile alle inflessioni del parlato derivate dalla provenienza geografica – l’”accento”, per intendersi! In mancanza di indicazioni specifiche nelle parti orchestrali, per fare un esempio, un’orchestra tedesca tenderà in linea di principio a suonare in modo più declamato, più grave, più lento e con un timbro più scuro rispetto a un’orchestra italiana, che viceversa propende per un suono più brillante, leggero, e per un fraseggio a linee più lunghe. Tali differenze sono oggi meno marcate che in passato, forse anche a causa di una più alta percentuale di stranieri, per provenienza e/o per formazione, negli organici orchestrali. C’è da dire, inoltre, che si tratta di fenomeni spesso limitati alle prime letture di un brano: la flessibilità di molte compagini consente a un direttore esperto di modellare il suono secondo la sua idea interpretativa.
È un sostenitore delle historischen Aufführungpraxis?
Senz’altro. La mole di ricerche e di documenti prodotti, nonché la tradizione esecutiva consolidatasi negli ultimi decenni rendono imprescindibile tener conto del portato della historischen Aufführungpraxis. Nella pratica, molto spesso – a meno di non avere a disposizione orchestre specializzate – si è costretti a compromessi: preferiamo dunque cedere a qualche compromesso pur di suonare Händel, a patto di farlo consapevolmente. Cerchiamo di evitare cum grano salis tanto il dogmatismo quanto l’arbitrio.
Come è il suo rapporto con i registi?
Ho avuto la fortuna di avere solo ottime esperienze. Cerco per quanto possibile di instaurare molto presto uno scambio di idee con il/la regista e di mantenerlo regolare e continuo. Credo che questo aiuti molto a evitare che si crei un pericoloso dualismo oppositivo tra “regia” e “musica”, peraltro spesso infondato.
Come si confronta con il teatro di regia (“Regietheater”) così prevalente nei teatri tedeschi?
In linea di principio lo ritengo un momento culturale inevitabile e direi pure necessario alla sopravvivenza dell’Opera come forma d’arte. Non per questo ne ritengo riuscito ogni prodotto: la veridicità artistica va ricercata in ogni singola opera d’arte – e dunque di ogni singola messa in scena. Purtroppo, o per fortuna, nessuna corrente di pensiero o pratica – né corrente, né controcorrente – può garantire buoni frutti.
Cosa ha in programma per il prossimo futuro?
In autunno sono previsti un concerto sinfonico per il Festival di Erl in Austria e Don Pasquale di Donizetti a Francoforte. A gennaio 2021 debutterò in Francia con concerti a Vichy e al Teatro degli Champs-Élysées di Parigi. Poi Orlando di Händel a Francoforte, un concerto in Spagna, probabilmente un nuovo progetto estivo ancora a Erl e due progetti in cantiere di cui non posso dire di più.
Un teatro al quale si sente particolarmente legato, a parte la base di Francoforte?
Certamente Basilea, dove ho avuto la fortuna di dirigere due eccellenti produzioni rossiniane (“La Cenerentola” e “Il barbiere di Siviglia”). Poi senza dubbio il Teatro di Karlsruhe, che ha dato inizio alla mia avventura tedesca. In Italia il Maggio Musicale Fiorentino, dove ho studiato e ho ascoltato molto, e il San Carlo di Napoli. E infine il teatro della mia città, che mi ha visto muovere i primi passi: il Teatro Marrucino di Chieti.
Un’opera che vorrebbe assolutamente dirigere e che non ha ancora fatto?
Se posso prendermi la libertà di indicarne più di una, ammetto: “Così fan tutte”, “Don Carlo”, “Otello”, “Madama Butterfly”, “Ariadne auf Naxos”.
Quando sale sul podio cosa intende trasmettere al pubblico che la ascolta?
Semplicemente entusiasmo verso la musica, nelle infinite forme che essa può prendere.
La vedremo a dirigere in Italia?
Spero presto, ma non posso dire di più!
Un’ultima domanda. Come vede da lontano la situazione dei teatri d’opera italiani? Anche nel campo della musica tanti giovani di talento lasciano il Belpaese per lavorare e affermarsi all’estero. Voci, bacchette e strumenti in fuga
Devo premettere che non conosco davvero in dettaglio la situazione attuale dei singoli teatri italiani. La mia impressione, probabilmente superficiale, è che a livello di sistema manchi una produzione musicale – non necessariamente di livello di punta – tanto diffusa da consentire a musicisti emergenti di fare esperienza con regolarità. D’altro canto, le produzioni italiane ad alti livelli restano tra le migliori al mondo, e anzi portano con sé quel quid incancellabile di tradizione e di prestigio invidiato da tutti. Fare musica in Italia rimane e rimarrà a lungo, al di là di tutte le difficoltà, un biglietto da visita prestigioso e dunque un obbiettivo importante per ogni artista.