Abbiamo intervistato un fiorentino molto apprezzato per la sua capacità di rintracciare, tra la fitta rete di trame che impreziosiscono il tessuto sociale, storie, testimoni, personaggi capaci di mutare il paesaggio e rinnovare il destino della comunità: Federico Micali ha diretto insieme a Teresa Paoli e Stefano Lorenzi il documentario “Genova senza risposte”, ha documentato il social forum europeo “Firenze città aperta”, ha diretto il videoclip della canzone “La legge giusta” dei Modena City Ramblers, girato il documentario “Nunca Mais” sul disastro ecologico della petroliera Prestige, ma anche il cortometraggio sulla resistenza a Firenze, “Lungarno – ci chiamavano ribelli” e “La nostra terra” sulle condizioni dei profughi nel deserto algerino in Saharawi.
Nel 2004 con la regia del cortometraggio di fiction “Tresecondi”, vince il MomFilmFest.
Presentato al Festival di Venezia nel 2010, spicca fra le sue creazioni “L’ultima zingarata”, un cortometraggio, con la partecipazione di Mario Monicelli e Gastone Moschin, dedicato alla straordinaria e irripetibile messa in scena del funerale del Perozzi di Amici Miei.
Nel 2015 il suo primo film dedicato a uno storico cinema fiorentino, chiuso nel 1989, “L’Universale”.
Insieme a Pablo Benedetti dirige “Firenze Sotto Vetro”, il progetto ambizioso del momento che vede protagonisti gli stessi cittadini di Firenze e le loro dirette testimonianze sul periodo di pandemia in questa città.
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Federico Micali, la sua produzione documentaria sembra voler cogliere, da sempre, la testimonianza storica particolare nel suo vivo manifestarsi. La macchina da presa è una lente di ingrandimento utile a comprendere meglio e più da vicino i fatti significativi del nostro presente e del nostro passato?
Sicuramente la macchina da presa è un mezzo che ti permette di entrare in contatto con le storie e con le persone, che ti regala la possibilità di approfondire e indagare e anche di ricostruire racconti che magari rischiavano di andare persi. Ma il video in generale sta diventando sempre di più uno strumento di espressione collettiva, grazie alla qualità delle videocamere dei nostri smartphone: la memoria sarà quindi sempre di più un “ingranaggio collettivo” e spesso le immagini riescono a trasmettere da subito una realtà diversa da quella che si vorrebbe rappresentata: penso nel mio caso a quello che è successo al G8 di Genova dove la presenza delle telecamere di molti videoattivisti ha cambiato la narrazione ufficiale dei fatti. Ma penso anche, recentemente al movimento Black Lives Matter, nato proprio dalle immagini girate durante l’uccisione di George Floyd.
In questo contesto si rivela sempre più importante il processo di elaborazione di tutte le immagini che ci circondano.
Come costruisce il suo lavoro di documentazione per un film?
Di solito è la curiosità la prima molla che mi conduce a voler approfondire un argomento. E la curiosità scaturisce da qualsiasi cosa: un articolo di giornata, una chiacchierata o anche da spezzoni di discorsi carpiti sul tram. All’inizio degli anni 2000 ero molto stimolato da storie anche molto distanti, adesso mi piace invece concentrarmi su cose a cui riesco ad essere vicino anche fisicamente e che posso sviscerare quotidianamente e di persona.
In ogni caso c’è sempre una prima fase di approfondimento e di immersione bulimica a cui fa seguito una successiva di valutazione del materiale e soprattutto di scrittura. E il processo narrativo è quello che comporta le prime dolorose scelte perché devo magari rinunciare ad argomenti o soggetti magari molto belli ma che non entrano in un arco narrativo che funziona ai fini del racconto.
Firenze, una culla di storie, fermenti culturali e stravolgimenti costanti. Cosa la lega più in profondità a questa città e cosa, invece, vorrebbe trasformare, potenziare, cambiare?
Firenze è la mia città e ci sono profondamente legato. Ho provato a distaccarmene: in fondo per questo lavoro le città chiave sono altre. Ma, per fortuna, non ci sono mai riuscito. Credo di conoscere la mia città piuttosto bene e questo mi dà un vantaggio nel capirla e nel raccontarla.
Firenze nasconde storie ovunque e ha il grande pregio di saperle raccontare: tengo tra i miei ricordi più cari l’incontro totalmente casuale con un signore che sul Lungarno iniziò a parlare a ruota libera davanti alla macchina da presa e che si rivelò poi essere il partigiano Silvano Sarti: “Lungarno” che è il corto-documentario che riporta quell’incontro rende perfettamente l’idea di questa capacità di narrazione.
Soffro moltissimo la perdita del centro storico e la trasformazione di Firenze in “Rinascimentoland”, e inizio a soffrire molto anche il processo di gentrificazione dell’Oltrarno che è la parte della città cui sono più legato. Alcuni anni fa mi sono spostato all’Isolotto Vecchio e ho scoperto un altro angolo di città fantastico, con altre storie che meritano di essere approfondite.
Firenze Sotto Vetro, progetto evocativo a partire dal nome, prevede la partecipazione diretta dei cittadini di Firenze. Come è nata l’idea di proporre questo docufilm e quali sono le sue finalità?
L’idea è nata da una serie di telefonate nel periodo del lockdown con Pablo Benedetti: ci siamo ripetutamente chiesti quale potesse essere il modo migliore per contribuire con il nostro lavoro a questo momento particolare della città e dunque a come poter raccontare questa quarantena: abbiamo preso in esame tutta una serie di storie, di professioni e di realtà che fossero in grado di rispecchiare il periodo che stiamo vivendo nel nostro microcosmo cittadino.
Piano piano ci siamo resi conto che quello che cercavamo si allontanava dall’idea narrativa e filmica che siamo abituati ad affrontare, per avvicinarsi a quella del social film making: la realizzazione di un documentario in cui tutti possano diventare protagonisti del processo creativo.
Una modalità che ci è sembrata particolarmente adatta ad un momento in cui la condivisione di immagini e di esperienze attraverso il web è un denominatore comune di questo distanziamento sociale che ci ha visti vivere in una sorta di reality show personale, confinati in set domestici ed estremamente limitati dove siamo stati costretti ad affrontare emozioni e difficoltà.
Chi ha continuato a lavorare lo ha fatto in condizioni totalmente diverse, come unico è anche il contesto urbano, vuoto e silenzioso come mai.
Ma per fortuna l’ironia e la condivisione ha fatto – come sempre da queste parti – da contraltare alla parte permettendoci di vivere il tutto molto meglio.
Quali sono i suoi progetti per il futuro?
Nel futuro prossimo il montaggio di Firenze Sotto Vetro e le riprese di un cortometraggio cui tengo davvero molto: si chiama “Mi piace Spiderman… e allora?” e parla degli stereotipi di genere visti dagli occhi dei bambini. Poi nei cassetti dopo l’Universale è pronto un nuovo film di finzione, ma credo che per questo ci vorrà un po’ di tempo in più.
Grazie.
Ines Arsì