Arrivo a Villa Urania un tantino trafelato. Forse sono in ritardo, forse sono queste nuove procedure a creare una sorta di ansia da prestazione sottopelle ogni volta che c’è un evento o un appuntamento. Insomma, ogni volta che qualcuno ci sta aspettando.
A proposito, Vi stavo aspettando si intitola lo spettacolo cui mi appresto ad assistere, il secondo appuntamento del progetto “Il Florian ed i Musei”. E il museo in questione è il Paparella Treccia Devlet, sito in Villa Urania nel pieno centro di Pescara, rinomato per la sua raffinata e prestigiosa collezione di maioliche, allestita con appassionata competenza dal Prof. Raffaele Paparella, suo fondatore ed autentico mecenate.
Arrivo a Villa Urania da Viale Regina Margherita, girando all’angolo con Via Piave, passando dall’ombra dolce del viale alberato alla luce munifica di luglio. Per qualche secondo, lo sguardo è impegnato a decrittare il contrasto degli elementi. Il punto di fuga di questa prospettiva fugace è il via vai frenetico del centro cittadino e la linea tremula del traffico in fondo. Non sono neanche le sette di sera.
Di lì a pochissimo mi trovo nel giardino che circonda la villa, assieme al piccolo gruppo di spettatori a cui sono stato assegnato (il pubblico viene organizzato in più scaglioni, con ingressi ciclici ogni 20 minuti). I primi accadimenti si producono al di sotto della soglia della consapevolezza. Forse, una guida ci indica degli sgabelli da occupare in un angolo, forse replico semplicemente, automaticamente le azioni degli altri. Personalmente, ricordo il suono di un flauto come messaggio principale di questo passaggio. E la sagoma di un flauto traverso, lucente, argenteo tra le foglie scure e rossicce del giardino.
Vedo un signore seduto di spalle nella regione d’ombra del giardino rigoglioso, a godersi la frescura della sera che va ad incominciare, lo sguardo rivolto all’ingresso maestoso della villa. Deve essere un attore: è vestito di nero e vicino a sé tiene dei fogli su di un leggio sottile. Si volta e ci saluta: “Vi stavo aspettando …”
Ci racconta una storia antichissima, che ciascuno di noi conserva in uno strato più o meno sommerso della memoria, condito con dettaglio più o meno preciso dai propri ricordi personali. È un mito della tradizione classica, un racconto in qualche modo “misterioso” perché per nulla condizionato dalla sua trama, fatto per essere raccontato e riascoltato senza soluzione di continuità.
Non una storia ma la storia, si potrebbe dire con un pizzico di prosopopea, per intendere quella che chiamiamo “memoria collettiva”: come un torrente in fondo all’abitato che resta fisso nello spazio, mentre la città lentamente si trasforma, le nostre cellule si ricambiano, le piogge dilavano tutto quello che si ostina in superficie. Nel torrente, intanto, gli elementi scorrono e i minerali si rinnovano.
C’è qualcosa che resta e che tutto contiene, come una bussola primitiva, ancestrale. Ed in effetti, l’intrico delle storie che ascoltiamo assomiglia al disegno dei quattro punti cardinali: il momento del racconto si ripete per quattro volte durante lo spettacolo, fermandosi in quattro punti diversi del giardino, quattro stazioni come nel modello degli spettacoli medievali, prima dell’invenzione della scenografia moderna e prima che si formasse il nostro modo di vedere, pensare, decifrare la realtà. E quindi anche il nostro modo di ascoltare.
Così, spostandosi e sostando di stazione in stazione, di ascolto in ascolto, la comunità degli spettatori percorre un periplo attorno alla villa, cercandola ed evitandola allo stesso momento, come un tempio misterico di cui si aumenta la potenza rituale progressivamente. Il giardino entro cui ci muoviamo diventa sempre di più il pianeta di noi umani, adiacente e comunicante con una dimora dove risiede qualcosa di più potente.
Questo balzo dall’universale al particolare è un tratto saliente in Vi stavo aspettando, un effetto che si materializza ripetutamente su di noi nel corso dello spettacolo. Mentre ascoltiamo le vicende di esseri potentissimi e bizzarri, investiti da passioni ancor più travolgenti, noi spettatori siamo costantemente qui ed altrove. Una parte della nostra memoria sfida involontariamente la voce del narratore, richiamando echi e frammenti di immagini dalle età che abbiamo vissuto, quando abbiamo intersecato ogni volta queste vicende e questi nomi, oppure personaggi e storie solo somiglianti, imparentate dalla ciclicità secolare dei miti.
Il principio dell’interferenza su cui si basa la nostra esistenza di umani del terzo millennio qui è perfettamente accolta, pacificata, quasi per effetto della sapienza millenaria del mito. Vi stavo aspettando, non da ora ma da tempo immemore, io che sono memoria: così pare dirci tutto attorno, come il bisbiglio ecolalico che ogni tanto soffia alle spalle degli spettatori, disperso come un aroma da presenze sbucate dal nulla (nuovi attori, musici o comparse che passeggiano nel giardino, attratte ora da questo o da quel fiore). Tutto diventa vero, ma leggero e pronto a svanire come una bolla di vapore estivo su di un petalo vellutato nel momento in cui vogliamo toccarlo: un nerboruto orribile può innamorarsi di una donna bellissima, anzi perfetta, e credere di essere riamato. Un giovane può vedersi trasformato in cervo, mentre in un canneto – a ben vedere – si nasconde il grido di un gigante che credeva di essere invincibile.
E quando tutto è vero e quando tutto è fatuo, tutto – nel tempo breve dell’incantesimo – è intonato e giusto: ha senso che una voce dalla strada o da un balcone entri a sommarsi in questo concerto di suggestioni, cinto nel giardino di Villa Urania, dove ogni rintocco di realtà e di immaginazione trova momentanea armonia. Ha senso il traffico sullo sfondo, un monopattino che sfreccia al di là della siepe. Come in una coreografia estemporanea o in un copione non scritto, trova un posto lo spartito che vola via al capriccio del vento e persino lo squillo immancabile di un cellulare dimentico non riesce a recare disturbo. Prevale la tenerezza dell’imbarazzo che lo accompagna.
Allo stesso modo, non spezza il cerchio dell’attenzione la presenza sensibile del gruppo precedente al nostro, impegnato poco più in là nell’episodio successivo del grande racconto. Sarà forse per questa prossimità dell’umano e del numinoso, la stessa che permette al mito di trasformarsi senza temere trasgressioni o ridimensionamenti: ce lo dimostrano una volta di più le maioliche conservate con cura devota nelle sale di Villa Urania, con i gesti, le gesta ed interi passaggi narrativi espunti da miti e leggende, fermati sulla superficie liscia di un oggetto tangibile e fruibile come un piatto o un vaso da fiori.
Il territorio dell’interferenza unifica oltre ogni licenza poetica il passato ed il presente, il classico e ed il postmoderno. Ascolto il quarto ed ultimo mito. L’abbigliamento estivo, che lascia scoperte porzioni estese di gambe e braccia, mi rende più ricettivo, più consapevole di essere preda, ospite, possessore di un controllo solo illusorio. Posso percepire sulla pelle la temperatura che cambia velocemente al crepuscolo, insieme al rarefarsi della luce, sotto l’inclinazione estrema dei raggi del sole. Ma non v’è distrazione in questo sovrappensiero che insegue un moto del corpo, un brivido esile, quasi piacevole. Tutto si assomma dolce e nulla distoglie da questo momento in cui il tempo si rivela nel suo essere organico.
“Vi stavo aspettando” ripete l’eco, forse questa volta è solo immaginazione, ma in fondo che differenza fa? È l’ora delle trasmutazioni, nel “grande libro” della Natura come in quello delle Metamorfosi di Ovidio.
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CREDITS
Titolo: “VI STAVO ASPETTANDO (dalle Metamorfosi di Ovidio alle Ceramiche di Castelli)”
Regia: Alessio Tessitore
Con Giulia Basel, Flavia Valoppi, Alessio Tessitore, Daniele Ciglia e i giovani allievi di Teatrando Master
Musiche a cura di Manuela Martinelli, Cristina Santonastaso, Benedetta Pennese Coordinamento Museo Arianna Chiriatti (direttrice scientifica), Virna Caranci, Raffaella Cordisco, Federica D’Amato, Matina Puca
Produzione: Florian Metateatro Centro di Produzione Teatrale