Dove si perdono tutti i confini, c’è uno scoglio che guarda all’Africa settentrionale eletto, dall’opera di Mimmo Paladino, Porta d’Europa.
Punto di riferimento strategico, presidio militare in ogni epoca di cui si ha memoria, ma anche luogo d’esilio, Lampedusa affiora, tra le acque più profonde e cristalline del Mediterraneo, come un frammento di terra sahariana tutto ridisegnato da mura a secco e costellato di piccoli tetti bianchi modellati dal vento, come certi pini che la adornano di forme chine tra i sassi, senza dare ombra. Il centro cittadino è un cantiere di appartamenti, finestre spoglie, porte murate e poi sfondate, vecchi balconi morsi dalla forza temperata e costante della salsedine. Un clima decadente in cui si è fatto largo un corso vivo e colorato dedicato al turismo d’élite che popola anche le lussuose ville periferiche, nascoste tra i costoni di roccia, abbracciate da oasi di palmeti, pareti invalicabili di fichi d’india e patii bianchi continuamente ripuliti dal vento di maestrale che, in questo agosto, ha imperversato su ogni fronte.
Ovunque la terra racconta il mare; barche ormeggiate sui dossi di colline desolate, radi cartelli per le calette. E come in acqua, non esistono strisce pedonali; mezzi di ogni fattezza si accalcano, in impressionante quantità, per le vie del noleggio caotico e rumoroso, tra le bande di cani randagi rabboniti dal caldo.
Questa gente si nutre di turismo come una volta si nutriva di pesca e, a ben vedere, le due cose sopravvivono assieme, in un delicato equilibrio che appare eternamente precario, governato dal tempo delle stagioni insindacabili e dagli eventi di portata storica che ne illuminano continuamente la sorte al mondo intero; la comunità, infatti, perpetua saperi antichi che sembrano più legati alla sopravvivenza che alla socialità. Sanno sempre se il tempo cambierà e lavorano senza sosta nell’attesa dell’inverno, come formiche prodighe tra il fitto cicaleggio di stranieri, ognuno curando il proprio angolo di marciapiede che, qui, ha perso il suo originario utilizzo riservato al transito pubblico, a favore dell’uso privato, non recintato, ma provvisto di un sali e scendi di scale di valore apparentemente perimetrale.
I sapori sono un rimpasto straordinario di culture e i vini decantano bene, ma quasi nessuna produzione locale è oltre che familiare; si investe tutto in case vacanza e l’identità dell’isola scorre sotterranea, taciuta.
Lampedusa è una preziosissima riserva naturale, non dotata ancora di un impianto funzionante di depurazione delle acque; quello di più recente costruzione si sta deteriorando come un monumento dimenticato, senza mai essere stato utilizzato. Manca anche l’ospedale; per le gravi emergenze c’è l’elisoccorso, ma una donna incinta deve lasciare l’isola almeno due mesi prima per raggiungere, a proprie spese, un presidio sanitario attrezzato di maternità, secondo un singolare, inaccettabile, esodo programmatico.
Ho chiesto ai ragazzi del posto come vivono tanta estrema bellezza e una tale sensazione di abbandono da parte delle istituzioni del nostro paese, ma ho raccolto spesso un comune senso di rassegnazione. Molti riconducono al fenomeno della migrazione un danneggiamento dell’immagine dell’isola nel circuito del turismo, con tutti i danni che può comportare all’economia locale.
Il centro di accoglienza per migranti, visto dall’alto, è una costruzione silenziosa, affossata, quasi nascosta, tra due piccoli promontori e circondata da reti bucate. Il sovraffollamento, nell’attesa di un futuro ignoto, dopo infinite peripezie di viaggio verso una qualche salvezza, rende la calma apparente satura di incertezze. Molti escono e percorrono a piedi i sentieri polverosi di fortuna che portano in paese e, così come erano usciti, ritornano, non avendo altra meta.
Non siamo in un luogo di libertà, ma neanche di prigionia; questo è un luogo di sospensione, topos omerico che sopravvive alla leggenda, nell’odissea personale di centinaia e centinaia di esseri umani in cerca di casa e salvezza dalla povertà.
Tutto è troppo distante per scappare, ma anche per restare. La loro storia è l’impresa epica della contemporaneità, come ben racconta il Museo della Fiducia e del Dialogo per il Mediterraneo, nato grazie alla collaborazione tra il Comune, l’Associazione Nazionale Vittime Civili di Guerra e il Comitato Tre Ottobre.
Il 3 ottobre 2013 è una data simbolo che ha visto la morte di 368 migranti nei pressi delle coste di Lampedusa, per questo il Comitato ha adottato questo nome con l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica sui temi dell’integrazione e dell’accoglienza, attraverso progetti di formazione e attività divulgative.
Tra la raccolta di oggetti, opere, e testimonianze sulla migrazione, spicca il documentario Apnea di Michele Cirillo, fotoreporter indipendente e docente di fotografia di Roma che ha fatto dei diritti umani, dei soggetti che vivono in zone di conflitto o che fanno parte di minoranze, il perno centrale della sua ricerca.
Ha collaborato per Internazionale e Left, vinto diversi premi, fatto molte mostre e partecipato attivamente all’allestimento e inaugurazione del Museo, come fotografo scelto per documentare il ricordo della strage.
In Apnea le immagini video-documentaristiche hanno il potere di immergere lo spettatore nel viaggio, nel rischio, nella disperazione di coloro che riescono a raggiungere le coste di Lampedusa, ma anche di trasportare nelle profondità del naufragio e della morte, con una forza trascinante, capace di trasmettere un senso di impotenza drammatico.
Per conoscere da vicino quanti collaborano al recupero delle persone soccorse lungo i tragitti della speranza, grazie a Giorgia Linardi, portavoce Sea Watch Italia, che ha espressamente raccontato l’utilizzo strumentale del fenomeno dei flussi migratori, ho potuto incontrare il project coordinator dell’organizzazione di ricerca e salvataggio nel Mar Mediterraneo Centrale, Alberto Mallardo, che ha rilasciato una importante testimonianza sulla situazione attuale:
<<Al momento mi trovo a Lampedusa, confine estremo meridionale d’Italia e dell’Unione Europea. Da quest’isola partono le missioni aeree di Sea Watch, in collaborazione con la ONG svizzera HPI; nel solo mese di luglio siamo stati in grado di monitorare e individuare più di 700 persone in mare, in situazioni di stress, nel mediterraneo centrale. Purtroppo, ancora una volta, siamo stati testimoni delle violazioni del diritto marittimo e dei diritti umani. Infatti, in molte circostanze, abbiamo assistito a colpevoli ritardi nei soccorsi o a intercettazioni illegali effettuate dalla guardia costiera libica in acque maltesi e quindi, al di fuori della loro zona di competenza. Abbiamo assistito drammaticamente a diversi casi in cui non c’è stato soccorso. Ci giunge, oggi, 24 agosto, la notizia di 4 possibili naufragi, nel corso della scorsa settimana, che avrebbero visto la morte di centinaia di persone. Al momento il nostro aereo è in volo e stiamo monitorando il mediterraneo centrale in supporto alla Sea Watch 4, che è la nave nata dalla coalizione europea United for Rescue, nata in Germania nei mesi scorsi, proprio per supportare le operazioni di monitoraggio della Sea Watch. A bordo della Sea Watch 4, per il momento ci sono circa 200 persone che sono state soccorse in tre differenti operazioni di recupero; abbiamo già chiesto alle autorità italiane e maltesi un porto sicuro di sbarco e attendiamo una risposta per poter considerare concluse le operazioni e portare in sicurezza le persone che abbiamo a bordo. Ci teniamo a ricordare un passaggio della sentenza della cassazione nel caso Rackete, in cui si sottolineava come le operazioni di soccorso non possano dirsi concluse se non con lo sbarco delle persone a bordo. Quindi, è evidente che al momento le persone che si trovano sul ponte della Sea Watch 4 sono al sicuro, ma è altrettanto evidente che, per garantire il rispetto dei loro diritti, queste vadano fatte sbarcare nel piu breve tempo possibile.
Continuiamo ad assistere a una persistente campagna di criminalizzazione volta a fermare le ONG che continuano ad operare nel Mediterraneo. La nostra nave, Sea Watch 3, è tutt’ora bloccata nel porto di Agrigento, in seguito a delle rilevazioni effettuate dalla guardia costiera italiana. Speriamo di poter risolvere le irregolarità che sarebbero state riscontrate a bordo, tuttavia, siamo consapevoli della strumentalità di questi controlli e crediamo che dietro ci sia una volontà politica di fermare i soccorsi in mare. Sea Watch non è l unica ONG a essere bloccata, al momento, in porto. Anche SOS Mediterranee, con la sua nave Ocean Viking, si trova a Porto Empedocle. Sea Eye, con la nave Alan Kurdi, è anche bloccata e la nave Aita Mari è altrettanto impossibilitata a riprendere i soccorsi. Crediamo che, in assenza di vie sicure e legali di accesso all’Europa, sia fondamentale continuare a presidiare il Mediterraneo, perché le persone che scappano dalla Libia hanno diritto ad essere soccorse, anzitutto quando in difficoltà in mare e, in secondo luogo, a chiedere asilo una volta giunti in Europa.
Purtroppo i fenomeni migratori vengono utilizzati per fini elettorali dalla politica italiana e, più in generale, in Europa. Crediamo che servano soluzioni concrete che possano garantire la dignità alle persone soccorse, il rispetto dei diritti umani e crediamo, tuttavia, sia anche responsabilità europea la gestione dei fenomeni migratori ed è per questo che sono ormai anni che chiediamo venga istituito un meccanismo vincolante, di ridistribuzione delle persone soccorse nel Mediterraneo, tra tutti i paesi europei, di modo che non siano solo i paesi costieri come l’Italia e Malta a doversi incaricare dell’accoglienza di queste persone, ma che sia un processo condiviso a livello europeo. Purtroppo non sembra che, al momento, ci sia una volontà politica di trovare delle soluzioni concrete. Rispetto all’accoglienza delle persone soccorse, in questo momento, sull’isola di Lampedusa, ci sono circa 1200 persone stipate all’interno di un centro che potrebbe accoglierne non più di 200, in condizioni vergognose, con carenza di servizi igienici, carenza di spazi comuni, con una promiscuità tra donne, uomini, minori e ancora una volta assistiamo al fallimento della politica nel trovare soluzioni concrete.
Per concludere, chiediamo assunzione di responsabilità da parte dell’Europa e dell’Italia. Il lavoro delle ONG è prezioso, il lavoro della società civile è fondamentale, ma queste non possono sostituire l’operato degli stati, sia per quanto riguarda l’accoglienza, ma, soprattutto, per quanto riguarda i soccorsi in mare.>>
La connivenza tra istituzioni e mafie appare una tragica probabilità come ha testimoniato, tra gli altri, in una intervista di Giampaolo Musumeci, Exodus, trafficante impiegato nella tratta di esseri umani che provengono da contesti di guerra, fame e carestie, nella speranza di trovare un lavoro, spesso già promesso prima della partenza. Una volta a Lampedusa, racconta Exodus, mentre la polizia chiude un occhio, molti sbarcati vengono intercettati dalle mafie e avviati allo sfruttamento della prostituzione, allo spaccio o alla raccolta nei campi, dopo mesi di viaggi, violenze, ricatti, accumulo di debiti con le organizzazioni che si occupano del loro trasferimento e del loro sostentamento.
Sono, tuttavia, molti i progetti inclusivi dedicati all’accoglienza e all’integrazione, come ci racconta in questa intervista Claudia Vitali, social operator di Mediterranean Hope:
Cosa sta accadendo in questo momento nel Mediterraneo?
Il Mediterraneo è stato ed è teatro di grandi violazioni e tragedie. Vi riposano più di 40.000 corpi tra donne, bambini, giovani. Questo è il dato ufficiale, ma gli esperti parlano di almeno il doppio.
Le politiche di stampo securitario e principalmente concentrate sull’ordine pubblico e sulla sicurezza dei confini stanno andando di pari passo, ormai da anni, con la criminalizzazione della ricerca e soccorso in mare e della solidarietà. Per questa ragione le navi umanitarie delle ONG hanno subìto numerosi blocchi e sequestri amministrativi, lasciando il Mediterraneo vuoto per periodi molto lunghi. Questo non ha minimamente interrotto il flusso migratorio, smentendo una volta per tutte la retorica del pull factor, ma anzi proprio negli ultimi mesi stiamo osservando un incremento notevole e continuo di arrivi soprattutto dalla Tunisia ma anche dalla rotta libica, nonostante in mare non vi sia alcuna nave umanitaria.
L’Italia ha rinnovato gli accordi con la Libia e questo non ha fatto altro che aumentare le morti in mare e i respingimenti verso la Libia stessa ad opera della sedicente Guardia Costiera con modalità violente e spesso criminali.
Le persone che lasciano il proprio paese sono costrette a intraprendere la via del Mediterraneo, di mettersi nelle mani dei trafficanti e della fortuna; questo perché non hanno la possibilità di viaggiare in modo sicuro e legale con dei visti semplici e normali che chiunque altro cittadino può richiedere prima di una qualsiasi partenza. Motivo per cui stiamo chiedendo i corridoi umanitari anche dalla Libia.
Quali sono le attività di Mediterranean Hope a Lampedusa?
Mediterranean Hope è il Programma rifugiati e migranti della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (FCEI). È nato in seguito al terribile naufragio del 3 ottobre 2013 in cui 368 persone persero la vita di fronte alle coste dell’Isola di Lampedusa. Pochi mesi dopo, agli inizi del 2014, le Chiese Evangeliche decisero di non essere più spettatori lontani e inermi di fronte a tali tragedie, bensì di agire e mettersi in campo. È nato a Lampedusa, dopo poco, l’Osservatorio sulle migrazioni che fino ad oggi ha garantito una presenza costante durante tutto l’anno. L’Osservatorio ha svolto e svolge diverse attività spesso rimodulate in base ai cambiamenti della frontiera. Siamo presenti al primo approdo delle persone migranti al Molo Favaloro (zona militarizzata adibita agli sbarchi) con acqua, coperte termiche, qualcosa da mangiare, un sorriso e un abbraccio per rendere dignitoso e umano un momento comunque carico di tensione e di forze dell’ordine.
Siamo testimoni, raccogliendo dati e storie, di tutto ciò che accade nel Mediterraneo Centrale e sull’Isola. Lo facciamo attraverso analisi di tipo quantitativo e qualitativo che spesso prendono forma in report, interviste, comunicati, post o condivisioni con la cittadinanza. MH inoltre fa parte e coordina, insieme alla Parrocchia locale, il Forum Lampedusa Solidale: un gruppo informale di persone del posto, turisti, ricercatori, amici e persone di passaggio che si interrogano su come agire a tutela dei diritti di tutti e tutte, su come intervenire sulle vulnerabilità di chi si trova in difficoltà, cittadini locali e persone migranti che approdano sull’Isola. Con i volontari del Forum, oltre alle attività agli sbarchi, svolgiamo, da anni, il ruolo di supporto alla comunità: fondo cassa sanitario per chi ha bisogno di curarsi fuori dall’Isola; pieno supporto all’unica biblioteca per bambini garantendo più aperture settimanali, letture, attività specifiche con esperti, aiuto compiti-dopo scuola. Supportiamo in più modi le attività delle ONG in mare (abbiamo preparato da mangiare per la nave Open Arms in mare, abbiamo dormito sul sagrato della chiesa per tutto il tempo che la nave di Sea Watch e di Open Arms sono state bloccate senza un porto per più di due settimane…).
Un altro aspetto importante del nostro lavoro è quello della comunicazione tramite le nostre pagine social, il nostro sito, interviste con giornalisti, ricercatori ed esperti.
Inoltre il nostro ufficio svolge anche la funzione di internet point e sportello socio-legale per gli ospiti dell’hotspot quando vedono prolungare la loro permanenza sull’Isola. Le persone escono dal centro e arrivano da noi per chiedere una connessione internet, comunicare con le famiglie, chiedere dei loro diritti e doveri, delle politiche migratorie italiane ed europee e spesso per raccontarci la loro storia, per trovare conforto, una spalla a cui appoggiarsi anche solo per un’ora.
Mediterranean Hope ha gli uffici centrali a Roma; una sede a Scicli (Ragusa) che funge da casa di seconda accoglienza; una sede in Libano nella quale vengono preparati e organizzati i corridoi umanitari (insieme a Roma) con i rifugiati siriani. Da poco meno di un anno abbiamo aperto un progetto anche nella Piana di Gioia Tauro rivolto ai braccianti sfruttati negli agrumeti della zona.
L’epidemia che stiamo affrontando a livello globale come incide sulle vostre attività?
La pandemia causata da Covid-19 ha inevitabilmente modificato e cambiato il nostro lavoro, le prospettive, alcune idee. È stato ed è tutt’ora un fenomeno di portata mondiale, serio e tragico. Esso ha momentaneamente fermato i corridoi umanitari; aveva fermato le attività di supporto agli sbarchi che però abbiamo ripreso da poco. Tuttavia ha incrementato gli interventi nella Piana di Gioia Tauro attraverso distribuzione alimentare nelle baraccopoli e nei ghetti, supporto socio-sanitario in collaborazione con altri attori del territorio, distribuzione di igienizzanti e mascherine per evitare la creazione di focolai ingestibili in luoghi in cui non è garantito neanche l’accesso all’acqua.
Il Covid-19 ha messo sotto i riflettori molte fragilità e non ha fatto altro che acuire alcune retoriche. Stiamo dedicando massima attenzione a luoghi potenziali focolai come l’hotspot (noi non lavoriamo al suo interno) e ai ghetti, in cui la salute pubblica non è garantita a causa di grande sovraffollamento.
Operate in una zona grigia che ha il preciso scopo di favorire accoglienza, integrazione, autonomia. Quali sono le criticità effettive lungo questo percorso?
Spostare il baricentro ed eliminare la retorica deleteria e distruttiva del cittadino di serie A e quello di serie B. Lavorare in frontiera vuol dire avere la capacità di anticipare e prevedere ciò che potrà accadere su larga scala; vuol dire prevenire ed evitare l’evitabile. Tuttavia ciò a cui un operatore di frontiera non potrà mai abituarsi è la sofferenza, la morte, le ingiustizie che ti passano sotto il naso con annesso il senso di impotenza che ti mangia viva/o. Le frontiera mette a nudo chiunque, dai piani alti a quelli più bassi. Tu sai che c’è margine di azione, che far rispettare e tutelare i diritti umani inalienabili non è poi così difficile e invece è più semplice e comodo strumentalizzarli per poi abbatterli.
Quali sono le condizioni fisiche e psicologiche degli sbarcati?
Dipende. Normalmente arrivano in condizioni peggiori le persone che hanno iniziato il viaggio in mare dalla Libia. È molto più lungo ma soprattutto si tratta di persone che da mesi o anni si sono messe in cammino, sono state schiavizzate, violentate e torturate in modi in cui la mente umana non può neanche arrivare ad immaginare. Quindi già al momento della partenza spesso le persone non si trovano in buone condizioni.
A differenza della rotta migratoria tunisina. Parliamo di un numero molto più ridotto di miglia. In “poche” ore potresti arrivare a Lampedusa.
Persone partite dalla Libia ci hanno riferito di aver viaggiato per 3-4 giorni con cibo e acqua scarsissimi o assenti.
Operate anche in supporto ai migranti impiegati come braccianti in Calabria. Quali sono le loro attuali condizioni?
La maggior parte dei braccianti abita la Piana di Gioia Tauro tra settembre e giugno, arrivando a circa 1.500/2.000 persone tra Rosarno, San Ferdinando, Taurianova e dintorni.
Tuttavia anche per coloro che rimangono durante la stagione estiva le condizioni sono pessime. Si tratta di una vera e propria schiavitù moderna dalla quale è difficile se non impossibile uscire. Il caporalato, lo sfruttamento agricolo si inserisce nella zona grigia e nella falla lasciata dalle famose procedure per i documenti/permessi di soggiorno. La burocrazia e le domande di asilo o rinnovo di permesso sono così complicate e lente che le persone si trovano inevitabilmente a dover accettare lavori da fame e a vivere in luoghi disumani dove non è garantito nemmeno il minimo: acqua, elettricità.
I braccianti sono vittime di un sistema economico che permette di produrre e vendere i prodotti alla grande distribuzione a prezzi bassissimi. Per poter produrre arance a 0,5 centesimi al kg viene inevitabilmente abbattuto il prezzo della manodopera.
Sono invisibili, in un limbo giuridico precario ed è comodo che rimangano tali.
Grazie.
Ines Arsì