Questa poesia di Emanuele Martinuzzi vuole essere una trasposizione letteraria del celebre dipinto di Paul Cézanne intitolato Il canestro di mele, datato 1893. In questo capolavoro Cézanne, nel suo percorso personale di maestro che ha imparato la lezione dell’impressionismo affrancandosene con intelligenza e allo stesso tempo di geniale precursore del cubismo, richiama le figure e gli oggetti quotidiani che compongono la natura morta in forme geometriche semplici. In questo ritorno al primitivo di forme elementari si caratterizza il suo viaggio artistico verso l’universalità dell’icona. In questo senso nella poesia lo spazio della natura morta diventa anche lo spazio di un paesaggio naturalistico, perché le forme elementari riescono ad abbracciare sia l’universo bidimensionale disegnato dalle mele, sia un’immaginaria veduta che ci proietta su pianure e montagne, per esempio presenti in un altro capolavoro come La montagna Sainte-Victoire, 1902-1904. Quindi le parole della poesia, come le forme geometriche usate da Cézanne, connettono la profondità elementare dell’emozione in ogni forma di paesaggio o oggetto o sentimento.
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Mele e forme geometriche
Queste abrasioni del bene
disegnate nella foschia,
che a trapezio si altalenano
su orbite abitanti
ogni santo male raffermo,
ogni mimo di prose balbuzienti,
arruffano i chiaroscuri della cesta
come fossero città popolate di sfere
brulicanti, sotterranee, mute.
E rotolando dalle cortecce
dei non so, dentro poi i sobborghi
di rugiade a scatti cilindriche, su bucce
guastate dai digiuni dell’oscurità,
contrarie ai sinonimi dell’anima
ne conservano l’amarezza nel morso,
la gioia latente infusa nelle imperfezioni.
Come fronti rassegnate,
leggiadre montagne
che si appoggiano l’una all’altra
in cerca di cura e pura altitudine.