Questa poesia di Emanuele Martinuzzi vuole essere una trasposizione letteraria del bellissimo dipinto del milanese Ambrogio Figino, intitolata “Fruttiera di persici” o “Piatto metallico con pesche e foglie di vite“, datato 1591-1594. Questa fruttiera dipinta in area lombarda costituisce uno dei primi esempi di natura morta pura o autonoma, ossia completamente affrancata da contesti figurativi o oggetti raffigurati di altro genere. Non ultimo si può dire che questo esempio anticipi di qualche anno il capolavoro del Caravaggio, la sua famosa fiscella di frutta, considerata la prima vera e propria natura morta in Italia. Il pittore era colui che donava immortalità ai soggetti che rappresentava o evocava soggetti sacri, simboli di quell’immortalità di cui l’arte partecipava. Con l’avvento di questo tipo di natura morta, anche oggetti di uso comune o del semplice cibo appunto, assurgono da semplici elementi decorativi a protagonisti esclusivi del quadro, in questo senso soggetti di questa immortale evocazione. Si potrebbe dire che l’eternità dell’Arte vinca infine sulla finitezza della Natura. Alla riflessione sul senso del tempo, alla vanità delle cose, per esempio nei dipinti di un Pieter Claesz, si passa alla cristallizzazione nel dipinto di ciò che invece abbraccia l’infinito e l’imperituro, anche nel quotidiano, come delle morbide pesche adagiate su un estivo letto di foglie di fichi.
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Pesche su foglie di vite
Grembi, adattati all’opaco
svolgersi di morte narrazioni,
rovistano tra profumi immacolati,
accatastando, dove gli ombelichi
uggiosi non mimano che succhi dolciastri,
cocci d’estasi di guance infantili.
Di traverso, foglie di penduli cuori,
adornano ogni morbidezza annegata
al candore, vitrea corrente del femminile,
e si arrampicano su regni distrutti
e su salme d’innocenza febbrile, come
canzoni color carne che salpano piangenti
verso la fine di un ritratto senza veste.
Letto immortalato d’argento, plateale
fraseggio di vanità, piacevole sciagura
l’incoscienza.