Operetta frizzante in una location di prestigio.
Pépito è un’Opéra-comique in atto unico che il compositore tedesco naturalizzato francese Jacques Offenbach compose all’inizio di carriera su libretto di Léon Battu e Jules Moinaux e la debuttò il 28 ottobre 1853 al Théâtre des Variétés a Parigi.
La vicenda si svolge nel paese basco spagnolo Elizondo e i protagonisti sono tre: Vertigo (basso buffo) il factotum del paese, barbiere, dottore, maniscalco, trombettista, narcisita e accentratore e proprietario di una delle due locande del paese, Manuelita (soprano), proprietaria della locanda concorrente, Miguel (tenore), giovane compaesano tornato ricco da Madrid.
E Pepito? Non c’è, è fuori a fare il militare, ma Manuelita lo ama e gli è fedele, anche se da vari mesi non riceve più lettere da lui.
A nulla valgono le profusioni e le dichiarazioni d’amore dei due uomini che la vorrebbero, ma lei non cede, fino a quando non arriva a Miguel una lettera del suo amico Pépito che gli comunica di essersi sposato con la sua vivandiera. A quel punto la giovane locandiera abbassa la guardia e cade tra le braccia del … giovane spasimante … naturalmente.
Il vecchio Vertigo rimane offeso, ma poi prevale il suo ego e cerca di consolarsi con un buon fiasco di vino.
Il libretto agile e spiritoso è un adattamento di un vaudeville di Scribe nella riscrittura di Giovanni Piazza e la traduzione italiana di Vincenzo De Vivo, direttore artistico della Stagione Lirica della Fondazione Teatro delle Muse.
Vertigo, introdotto da una sorta di parodia della famosa cavatina di Figaro, che viene anche nominato, è un personaggio sopra le righe, pieno di sé, a volte un po’ patetico e a tratti un po’ ridicolo, che un cantattore di pregio come Alfonso Antoniozzi caratterizza fortemente e ne fa una presenza centrale.
Nelle parti parlate ci ha messo anche del suo con battute comiche e a volte circostanziate, come l’accenno al vino rosso Conero, l’abilità attoriale lo ha portato a cangiar atteggiamenti ed espressioni adeguati alla situazione, la comicità, a volte triste come in tutti i vecchi del repertorio buffo rossiniano e donizettiano (Don Bartolo, Don Pasquale), non è plateale ma di rimbalzo e per questo più garbata e penetrante.
Antoniozzi si impone anche vocalmente. La sua importante voce di basso, morbida, estesa, sonora, di bel colore, ricca di armonici, consistente nei gravi, possente negli slanci acuti, si piega con facilità all’alternanza del registro comico-farsesco e di quello elegiaco, si assottiglia per ridicolizzare, sussurra per esprimere i sentimenti, farfuglia e pasticcia sotto l’effetto del vino. Esilarante il terzetto finale col brindisi di stampo rossiniano con lui ubriaco. Bravissimo.
E non finisce qui. Alfonso Antoniozzi ha curato anche la regia dello spettacolo.
Bellissima la voce del soprano armeno Maria Sardaryan, cantante in carriera perfezionatasi alla scuola di Arte Lirica di Osimo.
Luminosità del timbro, armoniosità del suono, sicurezza dello squillo, pulizia e sostegno dei lunghi fiati, solidità del mezzo vocale fino a note acutissime, uniti ad una garbata e naturale arte scenica, la rendono artista pregevole e da seguire.
Il tenore Pierluigi D’Aloia, il giovane spasimante in scena, è anche giovane cantante, avendo cominciato a studiare canto nel 2017, ed è fidanzato del soprano, quindi i due hanno potuto dare credibilità ai duetti d’amore perché non costretti a rispettare le distanze. Il tenore ha un bel timbro chiaro, canta bene e delinea con abilità un personaggio fresco e volitivo. Con lo studio e l’esperienza perfezionerà la linea e la tecnica di canto
Purtroppo le voci sono microfonate e il riverbero gira nella corte.
L’operina è molto divertente, la musica gradevolissima è quasi un ballabile a tempo di valzer, con rimandi spagnoleggianti, acquista in leggerezza con la voce scoperta del flauto, il turbinio serrato delle note conferisce vivacità, il susseguirsi di musica, canto e parole accentua l’effetto burlesco.
L’Orchestra Sinfonica Rossini in forma di ensemble da camera, diretta dal M° Marco Guidarini, è stata una pregevole coprotagonista. Tutti i professori d’orchestra sono entrati con padronanza nel gioco musicale restituendo l’effetto di eleganza e di frizzante levità.
Antoniozzi come regista ha trasportato la vicenda agli anni del primo dopoguerra per fare una correlazione col presente, epidemia di spagnola nel 1920, pandemia di coronavirus 2020, che però non c’entrano niente con l’epoca del plot (1850), c’è invece correlazione nel fatto che durante la prima guerra mondiale i giovani maschi andavano al fronte e le giovani donne aspettavano a casa le loro lettere.
La regia è vivace e spontanea.
La scenografia è naturale perché è la corte della Mole l’ambiente in cui si svolge l’azione, con ensemble orchestrale insieme a due tavoli laterali con sedie sopra un palco davanti ad un palazzo con finestre.
Ed è proprio su questo palazzo che viene proiettata una grande luna per la serenata del vecchiotto alla ragazza, ed è proprio da una di quelle finestre che la ragazza si affaccia per tirargli addosso un secchio d’acqua.
Carinissima.