Questa poesia di Emanuele Martinuzzi vuole essere una trasposizione letteraria del celebre dipinto di Henri Matisse intitolato “Pesci rossi”. Col dipinto in questione siamo di fronte a un’opera istintiva, fauvista senza prospettiva né profondità, dai colori elementari, con una vocazione verso un naturalismo stilizzato. I pesci rossi, pur essendo in una casa o in una terrazza, vengono attorniati da varie forme di vegetazione, forse artificiale, come fossero immersi in un contesto naturale. Nella poesia si prende a pretesto questa raffigurazione per far diventare il pesce rosso un simbolo, una rappresentazione morale o sociale di un essere che prima aveva sperimentato la libertà del mare aperto, o che aveva creduto nella possibilità di poter vivere in un mare o ambiente fatto a sua giusta misura ed invece dopo tante illusioni o speranze decadute, si accontenta di sopravvivere in cattività in un ambiente che ha solo l’apparenza illusoria della libertà e di quella bellezza e armonia, prima tanto agognate, che possono proviene solamente dalla natura libera di un mare sconfinato.
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Pesci rossi
Di quelle scaglie rosse
come elettriche sonnolenze
non rimane che un’incognita,
emigrante dal sonno artificiale
dell’acquario alle finestre del mare,
aperto, spalancato su burrasche finite
nel paradosso dei panorami
che si accaniscono all’infinito,
esauditi solo da onde
cangianti e ferite a scomparsa.
Di quelle branchie critiche,
armate di vortici e magrezze saline,
non rimane che il buio
inabitabile, introvabile delirio,
ed anfratti racimolati sul finire
dell’ultimo estro, d’ossigeno straniero.
Di quelle code strascicanti
sul fondo della storia come sbadigli
dialettici non rimane
che la vertebra del martirio e crimini
di pace, statiche tracce la leggerezza,
che decide di sopravvivere in apnea
nella tana dell’ossimoro.