Questa poesia di Emanuele Martinuzzi è la trasposizione in poesia di un genere artistico, prevalentemente pittorico, ma anche scultoreo e fotografico, dove l’artista fa un ritratto di sé stesso. L’autoritratto ha sempre custodito la volontà dell’artista di lasciare testimonianza di sé, attraverso un’opera che ritraesse anche le sue fattezze fisiche e in qualche modo rappresentasse il suo essere persona, le sue emozioni, pensieri, aspirazioni, paure, fragilità e in generale la sua visione del mondo e dell’arte. Nel caso di un autoritratto in poesia l’autore non si mostra se non con le parole, evoca le sue fattezze fisiche o interiori, ma nella forma sospesa di frasi, emozioni cristallizzate nella sintassi, che sono alla fine leggiadre domande, in questo senso rendendosi palese come mistero, incognita e interrogativo perfino a sé stesso, come alla fine lo è in fondo ognuno di noi. La poesia come l’arte, anche in questo caso, è intesa come una forma di ricerca dentro la propria interiorità.
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Autoritratto
Poesiola che si parafrasa
in letture sgangherate,
troppo compresa, a volte,
o abbandonata nei tratti
d’un alter ego a riesumare
carnagioni sbiadite, terrene.
Ogni smorfia una pagina
rilegata in respiri che
provengono dalle nubi;
le oscura un capo chino.
Caricature di ceralacca
o d’inchiostro notturno
per rendere originale
l’uguale malinconia,
immobile del viaggio.
E quei due punti che sgranati
scrutano se qualcosa avanzi
o sfugga al loro recinto color bosco.
E parentesi in cammino
a deturpare vegliardi silenzi,
bozze di labbra a forma
d’infanzie che tentennano frasi
o prigioni soffuse nell’affetto.
Ti chiama virgola naso
la faccia schiaffeggiata
da penombre, e argini
così tutta la fiumana
che vive e non si dice,
che non vive e si dice.