Per quanto proviamo a ripartire, a lasciarci alle spalle i mesi di lockdown e i morti, a tornare a una normalità (ma si può chiamare normalità se tutto questo rimane nei nostri ricordi?) non è possibile parlare di un evento come la 64esima edizione di Biennale Musica senza declinarla nell’attualità; l’elefante nella stanza, neanche troppo nascosto, è la CoViD19, presenza costante nella nostra vita da oltre sei mesi e accentratore di attenzioni anche quando vorremmo pensare ad altro, come alla musica.
E se al distanziamento, alle mascherine perennemente sul viso e alle pistole per prendere la temperatura ci stiamo lentamente abituando, non possiamo fare a meno di pensarci, guardandoci a destra e a sinistra dei posti in teatro, dove le sedie sono decorate a mo’ di dono natalizio con un laccio per impedire l’accesso agli utenti. Assenze ai nostri lati che seppur soddisfacendo quel malcelato desiderio di misantropia e permettendo di poggiare con maggiore comodità borse e giubbotti, ci fanno sentire un po’ più soli.
Suona quasi canzonatorio il titolo di questa edizione, Incontri anche se nell’idea programmatica del suo direttore artistico Ivan Fedele, sottolinea la doppia anima, diventata evidente nelle ultime edizioni del Festival, di espositore di contemporaneità e di programmazione del passato, più o meno recente.
Se la vena retrospettiva di Biennale è sempre stata presente (il leone d’oro è l’enfasi di una produzione compositiva che inevitabilmente ha avuto principale spazio proprio nel passato), in questa edizione più che mai rimane l’amletico dubbio sullo stato di attualità della contemporaneità. È più contemporaneo un brano scritto nel 2020 ma che ricalca le orme di una corrente di cinquant’anni prima o un brano di cinquant’anni fa ma che ha ancora carica progressista?
L’empasse viene superata grazie ad alcuni focus sui molti anniversari di questo anno (Beethoven e Donatoni per citarne due).
Ed è proprio da una di queste ricorrenze che parte questo resoconto in tre puntate.
29/09 – Vorrei incontrarti fra cent’anni
Bruno Maderna fa parte di quella triade (Nono e Berio gli altri vertici) di compositori italiani della contemporanea novecentesca che hanno scavalcato il muro che separa addetti ai lavori e pubblico generalista. Al contrario degli altri due, forse pagando quella libertà di pensiero e quindi di intento compositivo che spaziava dalle colonne sonore, al jazz e al cabaret, la sua produzione trova poco spazio nelle programmazioni artistiche. L’occasioni dei cent’anni dalla nascita è sicuramente la più indicata per riprendere in mano quella ibrida genialità che forse spaventa gli esecutori, spesso grandi interpreti nel campo della musica ‘seria’ e meno esperti nei restanti.
L’omaggio dell’Ensemble FontanaMix e del Collettivo In.Nova Fert dal titolo Sette Canzoni per Bruno (esplicitando un riferimento al Maestro di Maderna, Malipiero) viene a mio avviso erroneamente definito concerto-documentario. Se di concerto senza ombra di dubbio si tratta, i giovani compositori del Collettivo mescolando il proprio pensiero a delle matrici musicali maderniane hanno creato un vero e proprio percorso all’interno della caleidoscopicità compositiva di Maderna, intenzione ottimamente eseguita dall’Ensemble diretto da Francesco Licata, meno integrante e sicuramente lontana da quelli che sono i canoni a cui siamo abituati è stata la componente documentaristica, scollegata dalla musica eseguita (generando così una lotta su cosa concentrarsi), alcune volte troppo statica e comunque su binari completamente scollegati dalla drammaturgia recitata da Luca Scarlini, generando quasi l’impressione di aver voluto a tutti i costi inserire dei contributi video cui il progetto di per sé avrebbe potuto fare a meno.
Come tutte le celebrazioni di questo tipo verrebbe da chiedersi…ma a Maderna sarebbe piaciuto?
Avrebbe apprezzato che giovani compositori (un peccato non poter collegare compositore a sezione composta) fossero confinati nel solco della sua vena musicale?
Risposte che rimarranno sospese.
30/09 – A debita distanza
Si rinnova, anche in quest’anno difficile, la felice collaborazione con l’orchestra Haydn di Trento e Bolzano e si possono facilmente intuire le difficoltà di schierare una intera orchestra rispettando distanziamenti e protocolli. Uno sforzo teso a valorizzare l’unico filo conduttore di serata ovvero il rapporto fra solista e orchestra.
“Z truhle mojej prababky” – Slovenské l’udové piesne di Fabio Nieder, brano in prima assoluta dalla forte connotazione familiare e popolare (la traduzione recita ‘Dalla cassapanca di mia bisnonna. Canti popolari slovacchi’) illude lo spettatore di trovarsi di fronte ad un brano per soprano e orchestra ma lascia al potere catalizzatore del cimbalom di Enikö Ginzery il compito di governare la inusuale disposizione orchestrale, assemblata a 8 gruppi misti fra fiati e archi.
I temi popolari trovano e si fanno strada a gomiti alti nella tessitura contemporanea filata dal compositore che, anche attraverso a diversi piani sonori, trova momenti di esplosione unitaria, come quelle che possono caratterizzare i vivaci incontri popolani.
Più canonico il Concerto per Violino (Natura naturans) di Fabio Vacchi, in cui la solista Haruka Nagao non è solo protagonista ma rappresenta un ‘continuo’ virtuoso e allo stesso tempo lirico che soprattutto nel terzo movimento, dalla caratteristica di ritmo a orologeria, trova felici incastri con l’orchestra grazie alla precisa tecnica del direttore Timothy Redmond.
In un continuo gioco di eliminazione, l’orchestra si ritrova a comprendere solo una parte degli archi ad accompagnare i flauti dolci di Jeremias Schwarzer nel Recorder Concerto di Dai Fujikura.
Se nelle sezioni con flauto dolce e con sopranino l’orchestra risulta una estensione del solista, meno fortunata è l’ultima parte, con flauto basso, in cui la bilancia pende troppo a favore della sonorità degli archi, pur se sfruttati con l’ausilio di plettri.